Il Giro d’Italia 2012 tornerà sullo Stelvio, la montagna quasi sempre bianca.
“Piccolo San Bernardo”, il forumista, in altro thread mi ha chiesto:
La risposta è in questo spezzone del mio ultimo libro, pubblicato nello scorso giugno: “Arnaldo Pambianco - il campione e l’uomo”, un volume formato A4, con copertina cartonata, di 240 pagine con oltre 150 foto, edito da Gegraf. Il ricavato, andrà tutto in beneficenza, a favore della “Casa della carità” di Bertinoro, paese natale e di residenza di Arnaldo.piccolo san bernardo ha scritto: 2) Qualche anno fa,Facoltosi mi disse che (mi pare all'inizio degli anni 60) c'era una tappa che doveva finire sul Resia, e nel percorso c'era la inedita scalata di Gavia+Stelvio (e stranamente, lo è tuttora ), ma poi non se ne fece più nulla e la tappa finì a Bormio dopo avere scalato il classico versante di Prato allo Stelvio del passo anonimo...la notizia è vera? E come mai ci fu tale cambiamento? La neve sul Gavia?
Note: nel riporto che segue, sono state tolte alcune foto, nonchè gli ordini d'arrivo e la classifica generale delle due tappe estrapolate....
19a Tappa: Vittorio Veneto - Trento
Fu la tappa che più di tutte dimostrò, anche senza la visibilità di altre frazioni, quanto Arnaldo Pambianco, fosse il più forte del lotto del Giro del Centenario e quanto la sua Maglia Rosa fosse meritata. È sempre stato così, in una corsa di 21 giorni, c’è sempre una tappa che testimonia il migliore e che va letta a scanso delle risultanze. Gabanì quel giorno fece capire definitivamente ai prestigiosissimi avversari la sua superiorità, il suo inesauribile serbatoio di energie, la sua “inattaccabilità” in salita. Agli avversari non restava che la speranza di una sua crisi, o di un suo cedimento mentale, di fronte all’ansia che nasce quando il traguardo s’avvicina. Arnaldo, nella Vittorio Veneto – Trento, di 249 chilometri tutti in quota e col tempo inclemente di quel tanto da renderli ancora più difficili, fu attaccato, tanto direttamente, quanto a mo’ di specchietto per confonderlo e lo si lasciò il più possibile solo, per costringerlo a spremersi fisicamente e mentalmente. Ma lui non crollò, anzi tirò fuori una grinta che gli osservatori più attenti, alla fine della frazione, fra le righe, testimoniarono. Chi avrebbe potuto, nel tappone del giorno dopo, fargli perdere il Giro, quando, Gaul a parte, più per passato che per presente, nessuno era più forte di lui in salita? Era una domanda che già dava risposta, lasciando solo quel piccolo spazio all’imprevedibile che anche la ragione sempre accetta e mette in conto.
Passo del Falzarego – Da sinistra: Anquetil, Pambianco, Gaul, Suarez e Massignan
La Vittorio Veneto Trento offrì subito un episodio che andava visto come un primo segnale delle volontà di sgretolare la resistenza di Gabanì: l’attacco di Rik Van Looy. Nelle volontà del belga, c’era la speranza di innervosire la Maglia Rosa e di porsi a riferimento per qualche altro. Arnaldo, non cadde nel tranello e lasciò fare. Il grande belga rimase per una trentina di chilometri al comando, con piccolo vantaggio, fino al punto di essere praticamente costretto a rialzarsi. Sulle ceneri del tentativo dell’iridato, partirono n quattro: Galdeano, Garau, Guarguaglini e Boni che, insieme, percorsero il Cadore e raggiunsero ai piedi del Falzarego un vantaggio di oltre 5 minuti. Sulla lunga ascesa, il vantaggio dei fuggitivi andò a sciogliersi, ed in cima, Galdeano riuscì a transitare al comando, seguito da Garau a 20”, quindi Mas a 25”, Taccone e Massignan a mezzo minuto, Defilippis a 35” Pambianco ed il gruppo a 40". Distacchi lievi, dunque. Ma la situazione cambiò lungo la discesa, dove Van Looy, correndo i rischi del più coraggioso, si portò al comando insieme a Galdeano. Nella scia dei due restarono Trapé, Brugnami e Massignan. Arnaldo però, avvertì subito il pericolo e si gettò all'inseguimento con Suarez. Dal plotone, si mossero Junkermarin e Gaul, poi pure Anquetil e, sul Pordoi, dai fianchi bianchi di neve, restarono al comando in ventisei: tutti i migliori, più qualche gregario. Sulla vetta, passò in testa Taccone su Massignan, ma i big erano tutti lì. Ancora una volta fu la discesa a fare la voce grossa, grazie al fatto di essere avvolta da una coltre di nebbia e con una sopraggiunta pioggia, fitta e gelata. Defilippis non misurò i pericoli e si buttò alla ventura e, quando la strada tornò in pianura, il Campione d’Italia aveva accanto solo Massignan, Junkermann e Brugnami. A 1’10” inseguivano Anquetil, Van Looy, Pambianco e Mas, mentre il gruppo con Gaul, era mezzo minuto indietro. Pochi chilometri dopo, mentre dietro ai quattro, i migliori si ricompattarono, si ebbe la chiara sensazione che il tentativo dei fuggitivi, con Defilippis in una gran bella posizione in classifica, fosse serissimo. La Maglia Rosa, anche se mancavano 90 chilometri al traguardo, vide il pericolo e diede l'anima nell’inseguimento. Trovò un involontario aiuto solo nella discesa che portava ad Ora, per il tentativo di Van Looy di sgretolare la compattezza dei migliori. Anche qui, dunque, Arnaldo fu costretto a controllare e a dare il massimo.
A trentotto chilometri da Trento, la tappa visse un altro importante fase: dal drappello dei migliori evasero Balmamion e Battistini, seguiti da Schroeders, ed ai tre si aggiunsero Van Tongerloo, Pizzoglio e Brugnami. Col passare dei chilometri si stava profilando l’eventualità, più incredibile: Van Tongerloo, che in classifica aveva un ritardo di 3’46” nei confronti di Pambianco, poteva riconquistare le insegne del primato. Nessuno intendeva dare una mano alla Maglia Rosa che poteva fidarsi solo sulle ormai ridotte forze di uno stoico Assirelli. Sembrava corressero tutti per fargli perdere il Giro. In fondo, anche altri, escluso Van Looy, che aveva due compagni davanti, poteva avere degli interessi. Gabanì sì si accostò ad Anquetil, ma il gesto di risposta del francese fu eloquente. A quel punto, Arnaldo si innervosì e la sua reazione fu un tormentone per i pedali. Per la gran parte in prima persona, si lanciò in una mezzora di rincorsa mozzafiato. A Trento, sotto lo striscione, il distacco fu di 2’40”: la Maglia Rosa era stata difesa con successo. Pambianco si mise ad imprecare contro tutto e contro tutti, nemmeno volle sapere chi avesse vinto la tappa. Costei, era andata a Schroeders, per pochi centimetri su Brugnami. Alle interviste diede sfogo alla sua rabbia, ma nel dopotappa, ci fu una dichiarazione che parlava per tutte, poco rimarcata dall’osservatorio. Jacques Anquetil, a domanda su chi l’avesse impressionato di più nella tappa appena conclusa, rispose immediatamente: “Pambianco!”. Accanto, lo stesso Van Looy, di fatto confermava il giudizio del francese. “Oggi – disse – ho capito che non vincerò questo Giro. Pambianco? Impressionante quanto è andato forte, ma ha speso tutto, ed è inevitabile che domani la paghi”. Già, domani, nel tappone, con il Pénnes (m. 2211), il Monte Giovo (m. 2094) e lo Stelvio (m. 2757), per 275 chilometri e nove ore di bicicletta, si sarebbe eletto il vincitore di quel Giro storico. E se costui fosse stato Gabanì, per contenuti tecnici, di forza, di coraggio e di passione, si sarebbe potuto dire che a vincerlo, era stato un campione che l’aveva dominato.
20a Tappa: Trento - Bormio
L’Angelo della Montagna Charly Gaul, annuncia il Campione in Maglia Rosa: Arnaldo Pambianco
“Ci sono cose nella vita ben più importanti dello sport, ma lo sport sa ruggire, come nessuno, i valori estremi di intensità emotiva, fisica e mentale, che un essere umano può possedere”. Questa massima, opportunamente coniata attraverso letture, esperienze ed elaborazioni da parte di chi scrive, rappresenta il sunto più profondo dell’interesse che l’ha mosso verso le note e gli interpreti di questa originale forma espressiva umana. Un’immanenza che s’è imposta pian piano e che s’è sublimata nel crescente impegno e negli interessi di ricercatore e di narratore di gesta così esemplari per il proprio universo. Quel che fece Arnaldo Pambianco il 10 giugno 1961, senza enfasi, è la dimostrazione fedele di quanto quella massima sia vera.
La Trento-Bormio di 275 chilometri, rappresentava la sostituzione durissima e per taluni aspetti con ancor maggior fascino, della tappa originaria, resasi impossibile per lo stato d’inagibilità del Passo Gavia. Era l’ultima carta rimasta nel mazzo del grande Vincenzo Torriani, il quale, infastidito per le polemiche che erano sorte (molte delle quali pretestuose), aveva fatto lavorare tutta la notte gli spazzaneve, per rendere agibile il Passo dello Stelvio, allora come oggi, colle più alto mai percorso dal Giro d’Italia. Era, infatti, caduta l’ennesima neve, che aveva imposto quell’appendice, al lavoro dei giorni precedenti.
Negli occhi del patron, sembrava leggersi una frase menzionata ai più intimi: “Volete la corsa durissima, con tanto di Stelvio? Bene, io vi darò lo Stelvio!”.
Arnaldo partì da Trento, consapevole di essere da solo contro tutti, ed altrettanto consapevole di aver speso più energie di ogni suo grande avversario per la Maglia Rosa. Era stato protagonista già alla prima tappa e, venti giorni dopo, nella frazione precedente, era stato ancora quello che aveva dovuto rispondere a tutti. Insomma, si chiedeva: “se io sono in riserva, ne ho ben donde, ma gli altri, come saranno?”. Nel frattempo, aveva capito che non era la salita il terreno per lui più pericoloso, ma le discese e quelle pianure, dove serviva respirare. Sulle pendenze, doveva solo ragionare, fidandosi di quel suo passo che sapeva competitivo. Paradossalmente, aveva meno paura dello Stelvio, piuttosto che la discesa del Pennes e del Giovo. Però, si diceva ancora: “l’importante è che rimanga calmo, anche perché la tappa è lunga e le crisi possono arrivare da un momento all’altro”.
Il gruppo si mise in marcia da Trento, combattendo contro un vento impetuoso, che minacciava burrasca e che faceva spostare lungo il cielo nuvole cariche di pioggia. Partirono tutti con molta calma, ed il ritardo sulla tabella di marcia, divenne presto pesante. Il Passo Pennes fu affrontato a ranghi ancora compatti.
La testa del gruppo sul Pennes
La bellezza del colle con tornanti sempre più stretti e duri sullo sfondo di un paesaggio stupendo, ove la vallata sotto s’apriva a cornice, non stuzzicò gli ardori agonistici. C’era molta paura della distanza, forse. Soltanto all’ultimo chilometro d’ascesa, scattò Massignan, con Taccone a ruota: c’erano in palio i punti per la classifica del Gran Premio della Montagna. I due passarono la cima in quest’ordine e l’abruzzese, coi punti conquistati, si assicurò la matematica certezza di aver vinto la rassegna degli scalatori. Il gruppo dei migliori scollinò a poco più di mezzo minuto. Come aveva previsto Pambianco, fu la discesa del Pennes, non asfaltata, a scatenare i fuochi. Quindici chilometri da creare panico in chi seguiva la corsa in auto e pure un bel mazzetto per quei corridori che, sovente, in ogni epoca, san far dire agli altri che sono degli incoscienti. A fine discesa, in testa c’era Bruno Mealli, della Bianchi, uno che pur non diventando mai famoso nelle orbite di tanti, per i palati fini del ciclismo, resterà perennemente un gran discesista. Dietro Mealli, a 25”, un Van Looy ispirato e deciso a giocare ogni carta possibile per vincere una grande corsa a tappe. Ad una manciata di secondi dall’iridato, il gruppo sgranato con Pambianco che aveva dovuto superare un gap suppletivo per una foratura e che trovò nella ruota del gregario Oreste Magni, il modo per affrontare il guaio il più velocemente possibile.
L’arrivo della salita di Monte Giovo, convinse sempre più Van Looy ad insistere: acciuffò e lasciò Mealli e si mise a pedalare come fosse uno scalatore di gran pregio, al punto da far desistere chi di questa variabile era il “re”, ovvero Charly Gaul, che evitò di insistere nell’inseguimento. In cima al Giovo, il Campione del Mondo passò con 1’10” su Taccone, Massignan e Conterno, con 1’20” su Mas, Junkermann e Fischerkeller, 1’30” su Brugnami e Anquetil, 1’40” su Gaul, Pambianco.
Il tentativo del grande belga sembrava solo un modo per cuocersi, invece, nella discesa su Merano, su di lui piombarono Brugnami, Junkermann e Fischerkeller, ed i quattro, grazie all’ottimo accordo, iniziarono a mettere mattoni importanti sulla corsa. Nella pianura che anticipava le prime rampe dello Stelvio, il vento fortissimo parve inchiodare i fuggitivi, invece aumentò il loro vantaggio. Per il vento cadde Trapè, che era il primo degli inseguitori, il quale andò a sbattere contro un masso segnaletico e si ruppe il femore. Forse anche per l’accaduto, il gruppo dei migliori iniziò a pedalare con circospezione e lo scarto coi battistrada, a metà pianura, raggiunse i 5 minuti. Davanti intanto, Fischerkeller si produsse in grandi tirate per il capitano Van Looy e poi, dato tutto, si staccò. Poco più avanti Brugnami, forse per il vento o le sue proverbiali disattenzioni, toccò la ruota di Junkermann, ed i due caddero. Ebbe la peggio l’italiano, che fu costretto a darsi medicare ed a cambiare ruota, ma entrambi si ricongiunsero con Van Looy e trovarono la forza per dare quel “di più” che giunge quando si è arrabbiati. La traduzione di quella nuova animosità fu evidente: ai piedi dello Stelvio, i tre di testa contavano un vantaggio sul gruppo della Maglia Rosa, pari a 8’10”. Junkermann era virtualmente il nuovo leader della corsa.
Le salite, come si sa, non hanno pietà per i corridori e quella dello Stelvio, è da sempre una delle più impietose. I tre davanti, a vari livelli, lo provarono a loro spese. Mentre la neve ai bordi cresceva come se fosse pronta ad accompagnarli sirena verso un falso paradiso, prima Junkermann e poi, tre chilometri dopo, Brugnami, si ritrovarono prede di quel combinato di atrocità e sfinimenti che sono le crisi in bicicletta. A dieci chilometri dalla vetta, passò Van Looy che pareva discretamente fresco, Bugnami seguiva a un minuto, ed a cinque, c’erano Gaul, Anquetil, Suarez e Taccone, che precedevano a loro volta di una ventina di secondi Pambianco, Massignan, Battistini, Van Est e Fontona. Il volto della Maglia Rosa però, era di quelli che stanno interpretando un ruolo votato al freddo, forse per sincronia con la temperatura a zero gradi del bianco ambiente circondante. La neve, infatti, stava crescendo fino a formare due muri alti più di otto metri e la strada si riduceva ad un viottolo poco più largo di una vettura. Era il paesaggio dei grandi scalatori, era tempo di teismo montano e l’Angelo della Montagna Charly Gaul, si svegliò.
Da “Sport Illustrato”, l’azione dell’Angelo della Montagna, Charly Gaul
Il lussemburghese col danzare sui pedali che l’aveva eletto leggenda, se ne andò davanti a tutti. Raggiunse Brugnami e lo piantò, andò a caccia di Van Looy e acciuffò il belga, che era stato per tre chilometri leader virtuale della classifica generale. L’iridato crollò di schianto a sei chilometri dalla vetta e mentre Gaul stava scrivendo il suo copione, dietro, Anquetil tentò il tutto per tutto contro Pambianco. A poco più di due chilometri dalla vetta, il francese, per circa trecento metri restò leader virtuale, pagando un ritardo dal capitano della Gazzola di 2’, Suarez era a 2’20”, Brugnami a 2’35” e Arnaldo a 3’.
Ma Gabanì aveva calcolato tutto. Aveva accarezzato le residue forze di un Giro d’attacco e decise che era il momento di usarle. Il pubblico, che aveva sfidato ogni incoscienza giungendo fin lassù, quasi fosse esso stesso un corridore, poté assistere, spesso dall’alto della neve, ad uno spettacolo. Pambianco, senza illeciti aiuti, con un uomo della giuria che lo guardava a ridotta distanza, iniziò la sua fantastica progressione, il meglio di quel suo passo in salita che l’aveva contraddistinto fin da ragazzino. Mentre pedalava non osò pensare alla gloria, per quella c’era ancora tempo, ma a dimostrare a se stesso che era pure cresciuto nell’uso del suo motore. Gli incitamenti che echeggiavano come fossero richiami di ciò che aveva di più caro, dalla famiglia a quella gente della sua Bertinoro che amava e che sapeva e sentiva giunta fin lassù, intenerirono le sue fibre così sottoposte a guerreggiare col freddo e la fatica. Stava interpretando il suo sogno, ma non doveva pensarci: c’era Anquetil che annaspava da superare e c’era una discesa con l’Angelo della Montagna da seguire a non troppa distanza. Assorbì a velocità più che doppia l’esausto Brugnami, superò di slancio Suarez e con l’aggiunta del piglio dei campioni, raggiunse e staccò Anquetil.
Passo dello Stelvio 10 giugno 1961 – L’immagne emblematica di Arnaldo Pambianco, solo, in Magla Rosa ed in bello stile, sul mitico Colle, al tornante n. 38.
Sotto lo striscione del Gran Premio della Montagna, a quota 2757, Gaul passò in testa con 3’25” sulla Maglia Rosa Gabanì, “Monsieur Chrono” era terzo a 4’. Il resto per la vittoria al Giro del Centenario dell’Unità d’Italia, non era più nei giochi. C’era ancora la discesa dello Stelvio, l’ultima di quella giornata e del Giro. Era viscida, pericolosa, traditrice. E la discesa è una variabile del ciclismo che diventa cinica, quando la si svolge al lumicino, con l’acido lattico che ha cosparso il corpo di lame e la mente è offuscata al punto di dire alla vista che c’è nebbia. Una costante indipendente dall’abilità d’ognuno: quando si giunge in cima nel rosso più profondo, si va incontro a distacchi impensabili. Ed è quello che capitò ad Anquetil che non solo non raggiunse Pambianco, in fondo, in cima, fra i due, c’erano solo 35”, ma vide Gabanì allontanarsi fino a dimostrare che il ragazzo di Bertinoro, coi suoi occhi azzurri, c’aveva visto giusto a centellinare le sue forze sull’ascesa dello Stelvio. Se ne accorse pure Gaul che non solo non guadagnò sulla Maglia Rosa facendola tremare, ma si vide avvicinare. Un altro esempio, dunque, di quanto il ciclismo italiano si potesse vantare nell’aver trovato, nel garibaldino Pambianco, un fior di campione. Già, perché proprio lui, che aveva attaccato a Torino, era ancora il più fresco, forse per adeguarsi alla temperatura che oscillava sullo zero, o per dire al cielo, che nel frattempo s’era rannuvolato minaccioso, che era pronto a qualsiasi rovescio. O forse ancora, per ringraziare e dire “sono con voi”, alle migliaia di volti che, sulle strade di fine discesa, ormai prossime al traguardo di Bormio, stavano illividendosi di freddo. Arrivò sulla linea del rettilineo d’arrivo l’Angelo della Montagna ad annunciare al mondo che, a 2’07”, sarebbe giunto un Campione in Maglia Rosa coi bordi tricolori, dominatore d’un Giro che era l’orgoglio ed il segno d’un popolo. Il suo nome era Arnaldo, ed il suo cognome Pambianco, ma era così modesto e di cuore, da sentirsi “qualcuno”, mentre lo chiamavano Gabanì.
Bormio – L’arrivo della Maglia Rosa
Morris