Lingua italiana, domande e risposte.

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Proverbi e tradizioni

Essi sono una parte rilevante della cultura orale, nella quale rientrano pure indovinelli, filastrocche, ninne nanne etc, che si trasmettono da una generazione all'altra.
Il proverbio è sempre stato considerato come l'espressione della saggezza e dell'arguzia popolare, applicato a molti aspetti dell'esistenza umana, ma è anche parte del linguaggio ed è dotato di una formidabile forza espressiva e, per chi voglia cogliere la ricchezza e la varietà del panorama dialettale italiano, potrà farlo attraverso il raffronto fra le varianti regionali e locali di uno stesso proverbio.
Come esempio, possiamo prendere: "Ogni figlio pare bello alla sua mamma". Ecco quel che abbiamo trovato nell'Atlante paremiologico italiano.
Ogni gaza ama i so gazati (Rovigo)
Disse la bodda, ome som belli i mi boddini (Pisa)Brutto o bello, a ogno pehora pare bello i su agnello (Montevarchi)
Ogni skaraffòn è bell a mmamma sòia (Napoli)
U figl è bbèll aa mammë (Lucera)
Ogni nìuro scarbegghjeddu - a sso matri cci pari bbedu (Squillace)

P.S.

Doppiamo aggiungere, purtroppo, che nei proverbi traspare molto spesso la radicata cultura misogina che ha contrassegnato (speriamo al passato) i rapporti sociali e famigliari, forse il portato del libro più venduto e letto al mondo! :grr:
es. A fimmina, bona o mala, vali bastuniata ogni simana. (Calabria)


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Prestiti

In che forma entrano le parole straniere in Italia? Le possibilità sono due: prese come sono nella loro lingua, es. élite e garage dal francese, hot dog dall'inglese. In questi casi si parla di prestiti integrali; o possono essere adattati (talvolta vere e proprie traduzioni), come besciamella, pellerossa e si chiamano *calchi*. Faccialibro sarebbe un altro esempio, ma non è entrato nell'uso. :)
Ad oggi la lingua più conosciuta in Italia è l'inglese (purtroppo per me e per fortuna per gli altri), ma fino agli anni Settanta del secolo scorso era il francese la lingua più studiata da noi (e infatti io che sono della prima metà del Novecento amo la lingua di Molière e odio quella di Skapeskeare :D ) e questo spiega il contingente numeroso di parole transalpine nelle lingua italiana, anche se ormai la valanga degli anglicismi è inarrestabile. :grr:
Ci sono vocaboli che usiamo tutti i giorni e che nessuno pensa siano nati come forestierismi, per es. mangiare (dal francese, al posto degli italianissimi manicare, vedi manicaretto, e manducare, così come parlare che ha prevalso sul nostro favellare e che è la base latina dello spagnolo hablar. :)
Altri francesismi sono: formaggio (cacio), burro, cuscino, gioiello, tovaglia, coniglio (in toscano conigliolo), levriero, gioia, noia, freccia, giavellotto.


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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I forestierismi talvolta assumono una funzione eufemistica: chi non è mai andato al gabinetto in un ristorante, dopo aver chiesto: "Scusi, mi dice dov'è la "toilette"? Questo termine serve a esprimere in modo raffinato qualcosa che è giudicato sconveniente. Però "toilette" in passato aveva altri significati, che possiamo richiamare ripercorrendone la storia. Significava per i transalpini quella piccola tela che guarniva il mobile su cui, un tempo, si riponevano pettini, spazzole e altri utensìli impiegati per la cura e il trucco personale femminile. Per estensione è poi passata a indicare il mobile stesso, costituito da un tavolino, con uno specchio sovrastante e anche l'espressione "fare toilette". Sempre per estensione il mobile è diventato anche il locale dove lo stesso si trovava e con un'altro e definitivo allargamento di significato, i locali pubblici dove si trovano i servizi igienici. :D
Non sono mancati i tentativi di italianizzare la parola, ma l'originale ha resistito a tutti i tentativi di imitazione. :)


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La censura fascista e il tentativo di italianizzazione forzosa dei forestierismi produsse i suoi effetti e, ad es. autista (giustamente) prese il posto di "chauffeur", mentre menu, garage e cachet sono rimasti (quest'ultimo non è mai stato sostituito dall'italianissimo cialdino :D )
A partire dagli anni sessanta del secolo scorso la fonte francese si esaurisce ed è sostituita dagli inglesismi e molto probante è la tendenza a pronunciare all'inglese anche parole francesi, come dèpliant, dèssert, ràlenti, budget (badget), stage (steige)! :grr:
Può sembrare strano, ma non tutto ciò che sembra francese lo è davvero, in questi casi si parla di falsi francesismi, per es. il tango col casqué, non ha nulla di francese; è solo una parola creata per scherzo dall'italiano cascare. :bll: Lo stesso per "vitel tonné" in Francia non è mai stata usata da nessuno, del pari gli abiti premamàm. Invece "caveau" esiste in Francia, ma significa cripta e frappé in Italia è un sostantivo, mentre in Francia è aggettivo e vale raffreddato dal ghiaccio.


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La penetrazione dell'inglese, anche a causa di ragioni geografiche, è avvenuta in parte attraverso la mediazione del francese e la vera svolta avviene dopo la seconda guerra mondiale, quando l'Italia è inserita nel blocco dei paesi occidentali, guidati dagli S.U.A.
Da allora l'espansione dell'anglo-americano si fa inarrestabile e pervasiva e diventa anche *abuso*! Uno dei motivi del successo è rappresentato dalla brevità di certe parole, come boom, chip, fan, jet, kit, etc, mentre le traduzioni sono spesso laboriose; come ad es. rendere in forma sintetica espressioni tipo big bang o sit in?
Alcuni settori sono fucine inarrestabili degli anglicismi: linguaggio televisivo, informatico, telefonia e convegni scientifici e medici.
Anche dall'inglese-americano si hanno i falsi: ad es. si chiama mister l'allenatore di calcio, mentre in Inghilterra coach, così come footing (jogging) recordman (record holder) e nel campo dell'abbigliamento golf, trench, smoking, tight, body e slip sono indumenti che non hanno nessuna corrispondenza né in Inghilterra, né negli S.U.A. Ci siamo anche inventati lo slow food e il long seller (che non so che cosa significhi) :)
Per chi si chiedesse il perché di simili locuzioni o parole inesistenti, la risposta è semplice: l'uso di siffatto idioma ha un effetto nobilitante per gli incolti e, siccome questa categoria è molto diffusa in Italia e altrove, ..
E, infine, come per il francese, ci sono casi di eufemismo; volete mettere escort di fronte a puttana? :)


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Il modello americano è davvero preoccupante, perché l'influsso non si limita a un travaso di singoli vocaboli: slogan, frasi idiomatiche, espressioni confezionate si conformano! Ad es. X non è il mio presidente è un calco. Spesso il veicolo di diffusione è rappresentato dal doppiaggio televisivo, che induce a traduzioni frettolose. In quel contesto anche la fraseologia, ovvero un livello di analisi superiore al singolo vocabolo, è investita da modi sconosciuti (prima) alla nostra lingua, ma che ormai si è impressa sulla persone meno fornite di cultura. Pensiamo a casi come *qual è il problema* e soprattutto *non c'è problema*, invece di non ti preoccupare. [Rammento che prima di sposarci andammo a comprare la cucina e il rappresentante, mi pare della Ferretti, ci intrattenne pochi minuti per illustrare quella che, secondo lui, era la più confacente ai nostri desiderata. In questo spazio di tempo contai più di dieci *non c'è problema* e, appena usciti, dissi alla mia futura moglie: "Quello ci vuol fregare!" E andò proprio così! :grr:


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Nell'anno accademico 2007-2008 il Politecnico di Torino attivò una didattica gratuita in lingua inglese, da affiancare a quella italiana (a pagamento). Da allora, nella gran parte degli Atenei, si sono andati moltiplicando i corsi di laurea (non solo scientifici) che hanno seguito l'esempio di Torino. Tale prassi è senza dubbio il fenomeno più vistoso dell'anglofilia dilagante in strati crescenti della società italiana e, in particolare, gli intellettuali dovrebbero sapere che un italiano che insegna attraverso una lingua straniera sarà, per forza di cose, costretto a semplificazioni linguistiche e quindi concettuali. La ricchezza di sfumature argomentative, garantita da una profonda conoscenza della lingua madre, è destinata inevitabilmente a perdersi, se si ricorre a una lingua straniera. Inoltre, che comunità culturale rappresenta quella che rinuncia alla propria lingua? Credo che ormai anche i "negazionisti" più convinti siano d'accordo che il "morbus anglicus" esiste, solo che qualcuno lo considera un raffreddore, altri un tumore. E voi?


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Alberto Arbasino molti anni fa (2003) scrisse sulla Repubblica, riguardo alla sudditanza della lingua italiana, rispetto all'anglo-americano.
"Per i termini "coloniali" , dove cioè gli indigeni (a proposito, dico io, che differenza c'è fra indigeni, aborigeni e autoctoni? Vedi in calce *) si sottomettono agli idiomi "dominanti", il caso pare disperato! Infatti anche l'uso strettamente istituzionale di di Audience e Authority, non dipende tanto dall'imperialismo del "rock globale" e dei consumi connessi; e nemmeno da quella "cupidigia di servilità che il vecchio Vittorio Emanuele Orlando piangeva negli italiani. È un sintomo. E, come tale, dipende dall'inconscio. In esso agisce l'idea che dire una cosa in inglese "fa più chic". :grr: E forse non sono bastati centocinquanta anni circa di unità a stratificare nella coscienza collettiva il fatto di essere portatori di una grande lingua di cultura, che ci è invidiata da molti. Per terminare un esempio piuttosto significativo: abbiamo chiamato un dicastero "Ministero per il Welfare" !!!

(*) Ci sono diverse parole ben note che condividono grossomodo questo significato, ma l'autoctono ha una sfumatura con un mordente eccezionale.
L'indigeno è etimologicamente chi è stato generato in un certo luogo: il latino indigena è derivato di gignere 'generare', col prefisso 'indu-', che vale 'in-'. L'aborigeno è invece chi abita un luogo fin dai tempi più remoti: nella latinità il popolo degli Aborigeni era quello dei primigeni abitatori del Lazio, e forse trassero pianamente il loro nome dalla locuzione ab origine, 'dalle origini'. L'autoctono, infine, emerso in italiano solo nell'Ottocento, cambia le carte in tavola in maniera poetica: è della sua stessa terra. Letteralmente generato dalla sua stessa terra.
In altre parole, se l'indigeno ci presenta in maniera pulita il nativo, non immigrato e non importato, se la qualità dell'aborigeno è un sussistere in un certo luogo da tempo immemorabile, l'autoctono si mostra come esalato direttamente dalle vigorose viscere della terra. Un carattere che, a ben vedere, per quanto abbia i connotati di una lunga presenza, non ci parla solo di una dimensione temporale, ma di un'identità ctonia, sottile e profonda.
Vivendo con gli autoctoni a mille miglia da casa propria si colgono aspetti nuovi e insoliti dei giorni, la regione si pregia dei suoi talenti autoctoni, e i frutti autoctoni di una terra vengono recuperati con cura laboriosa. Ovviamente tanta serietà può essere facilmente volta in ironia antropologica, e quindi può essere divertente l'iniziazione dell'amico, appena trasferito, ai divertimenti autoctoni, e ogni volta che capitiamo a Milano/Roma ci appuntiamo i curiosi costumi degli autoctoni. :)


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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Tutte le discipline sportive presentano numerosi forestierismi, anche se il calcio fa eccezione, perché i moltissimi termini inglesi, che all'inizio pullulavano, sono stati sostituiti, basti pensare alla stessa parola del gioco, che in Francia (addirittura) si chiama ancora Football. ;) Ora sono rimasti indiscussi padroni del campo solo dribbling, e tunnel.
Ci sono però gli anglicismi di nuova coniazione, come forcing e pressing (per indicare una certa tattica), tap in (prestito dalla palla a canestro), così come play off e play out. Il termine mister, per indicare l'allenatore è invece un falso, dal momento che gli anglo-americani usano coach.
Proliferano invece, da un po', i termini spagnoli, perché le squadre di quel paese hanno grande successo e allora goleada, sombrero e remontada.
Nel ciclismo si trovano in prevalenza francesismi e l'unico prestito dell'inglese è sprint-sprinter.
L'inglese invece domina nel ping-pong su campo lungo (tennis), anche se la parola deriva dal francese "tenez", imperativo di tenir, che rappresentava l'avvertimento di chi stava per lanciare la palla in gioco. Ad eccezione di volée, tutti gli altri termini stranieri sono inglesi.
P.S. Che dice l'arbitro quando, con il servizio, un giocatore colpisce la rete?


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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lemond ha scritto: E forse non sono bastati centocinquanta anni circa di unità a stratificare nella coscienza collettiva il fatto di essere portatori di una grande lingua di cultura, che ci è invidiata da molti. Per terminare un esempio piuttosto significativo: abbiamo chiamato un dicastero "Ministero per il Welfare" !!!
Quel dicastero si chiamava, in precedenza, "Ministero del Lavoro e della Massima Occupazione"
Ora, si fosse mantenuta tale denominazione, la narrazione sulla riforma delle pensioni e sul jobs act si sarebbe fatta, per lorsignori, più complicata rispetto a quella che è stata.
Gli scempi si sarebbero compiuti ugualmente, non vi è dubbio, però...


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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Il sogno plurilingue

Qualche anno fa Umberto Eco, mettendo in luce la natura dialogica e polifonica della cultura europea, scriveva:
"Ecco che cosa sta alla base dell'identità culturale europea, un lungo dialogo fra letterature, filosofie, opere musicali e teatrali . Niente che si possa cancellare nonostante una guerra, e su questa identità si fonda una comunità che resiste alla più grande delle barriere, quella linguistica. Ma sino a che punto la barriera linguistica è così drammatica? Ho sempre parlato del valore sessuale del progetto Erasmus. Moltissimi universitari vanno a passare un certo periodo all'estero e poi si sposano laggiù. Il che vuol dire che entro trent'anni potremmo avere una generazione di bilingui. E d'altra parte si parla sempre più di plurilinguismo e plurilinguismo non vuol dire solo saper parlare molte lingue: esiste un plurilinguismo moderato e passivo per cui, se non si sa parlare una lingua, si riesce in parte a capirla. E accade sovente, fra i giovani che hanno viaggiato e in genere fra persone colte, che si possa sedere intorno a una tavola a cena, dove ciascuno parla la propria lingua e gli altri riescono a intenderne qualcosa. Sogno una Europa plurilingue di questo tipo e se oggi ne è pioniere solo qualche élite dotata di una cultura universitaria, voi potreste domani rendere comune a moltissimi questa bellissima facoltà."


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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La lingua dei mèdia

I giornali sono uno specchio chiarissimo del cammino che conduce alla lenta formazione di una lingua comune e nazionale. Con l'unificazione politica del Paese prende avvio un giornalismo di informazione, con la nascita di grandi testate (La Nazione, 1859; La Stampa, 1867; il Corriere della Sera, 1876; Il Messaggero, 1878) che contribuisce in guisa notevole alla diffusione di un italiano comune.
I quotidiani dell'epoca modernizzano e arricchiscono il vocabolario: nascono molte voci nuove di politica (destra, sinistra, femminismo, militarismo, internazionalista), scienza e tecnica (dinamo, aeroplano, anestesia, dinamite).
Nel ventennio fascista la lingua cambia molto e nei giornali domina il carattere apologetico, la cronaca nera è bandita (peccato, dico io che non sia rimasto così anche dopo :) ), lo sport enfatizzato, la sezione culturale (elzevìro, terza pagina) ampliata e piuttosto autorevole; infatti abbiamo di fronte un italiano fortemente letterario e retorico, con un lessico che insiste sui campi semantici della forza, coraggio e lotta. Sono eziandio bandite le parole straniere e dialettali, in nome della italianità e xenofobia.


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Eziandio al posto di anche è orgasmico. :champion:


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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Ai giorni nostri è cambiato quasi tutto e i giornali si caratterizzano per l'introduzione di molte parole del parlato e triviali, le metafore (sembra si cerchi a chi ne "sforna" di più e il peggio è che sono quasi sempre ripetute, (questo è un difetto particolare dei giornalisti televisivi) e i neologismi "creativi" e fantasiosi. Ad es, i verbi didascalici di effetto al posto di quelli neutri: sbotta, esplode, invece di dice, afferma. Nella sintassi, il periodare è, ovviamente, più articolato negli articoli di commento, di carattere argomentativo, specie se trattano temi complessi e fare l'analisi logica di certi "pezzi" sarebbe un buon esercizio nella scuola media superiore. Altra cosa utile per gli studenti sarebbe la lettura degli editoriali: in essi si trovano spesso voci poco comuni, ricercate e settoriali; ampliare il proprio lessico è quanto di più importante ci sia per un parlante/scrivente in formazione. ;)
P.S. per esempio, invece dell'assurdo cattivo, specie in campo sportivo ma non solo, si può usare risoluto, deciso, sicuro, pronto, determinato, etc.


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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lemond ha scritto: P.S. per esempio, invece dell'assurdo cattivo, specie in campo sportivo ma non solo, si può usare risoluto, deciso, sicuro, pronto, determinato, etc.
Per non parlare dell'abuso dell'aggettivo "fisico" : è una squadra fisica, è un gioco fisico, dobbiamo essere più fisici, ecc.
E come dovremmo essere, giocando a rugby ? Più spirituali ?
O più chimici ? Alè, puzzette per tutti !!!
No, non si gioca col culo !!!
Quello lo facciamo solo noi dell'Inter.


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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L'italiano in musica

Non è una battuta dire che l'italiano è nato alla letteratura con la musica, anche se abbastanza presto se ne è resa autonoma. La poesia romanza delle origini, ad es, era stata scritta per essere cantata e la Provenza è rimasta famosa per i suoi “Troubadours” , ma anche in Italia la prima poesia è sostanzialmente scritta per accompagnamento musicale; del resto basti pensare alla terminologia con cui sono indicati i componimenti: canzone, sonetto, ballata. Dante stesso dà la definizione di poesia nel De vulgari eloquentia: "una composizione fatta di retorica e di musica". E poi spiega i criteri con cui scegliere le parole più adatte alla poesia, in funzione dell'esecuzione musicale, per es. non debbono esser lunghe più di tre sillabe, non avere doppie zeta, elle o erre, etc.
In un passo famoso della Commedia, Purgatorio II, Dante e Virgilio incontrano il musico fiorentino Casella e subito il poeta gli chiede di cantargli una canzone. E Casella ne intona una di Dante stesso "Amor che nella mente mi ragiona".
Dante e Virgilio sono così presi da quel canto che ... "come a nessun toccasse altro la mente".


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L'opera lirica, ovvero il recitar cantando

La musica riusce a potenziare la perspicuità delle parole e del senso e l'opera lirica fu all'inizio soprattutto questo, lasciando ampio spazio, in un'inedita forma di teatro musicale, a zone di cosiddetto recitativo, cioè di una declamazione, più che di un canto vero e proprio. Ma presto si sente il bisogno di dare comunque spazio e libertà e si affaccia l'interrogativo di come conciliare le esigenze della musica con quelle del linguaggio verbale. Via via che l'opera sviluppa contenitori verbali destinati al canto disteso e mosso, cambia anche la lingua, che deve adattarsi a questi nuovi formati. Ne derivano importanti innovazioni metriche e linguistiche: versi brevi, molto e regolarmente rimati e rima tronca al fondo delle strofe. È dunque necessario aumentare la disponibilità della parole ossitone (tronche) che in italiano-toscano non sono molte e allora si fece ricorso a parole troncate in consonante come fuggir, andiam, fior, crudel etc. che finirono per identificarsi con la forma poetica per antonomasia.


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Oggi si pensa all'opera lirica come dominio del belcanto, invece essa è nata per il teatro e infatti ha raggiunto i suoi vertici quando è riuscita a rappresentare il racconto di fatti e contrasti fra i personaggi più diversi. I protagonisti sono quasi sempre non comuni: dei, semidei, eroi, condottieri etc. e, anche quando sono persone meno rare, sono sempre còlte in situazioni e atti estremi. Ma forse il motore della maggioranza delle storie è l'amore.
L'opera, come si sa, è nata in Italia, ma aveva come modello il grande teatro classico greco e la musica era chiamata a potenziare, senza mai tradire, la parola. Tuttavia si vide subito che era utile per il dramma e molto gradito agli spettatori, alternare ai brani in stile recitativo, altri in canto più disteso ed elaborato, musicalmente organizzato e ricco (saranno le arie). In questo caso (invece di endecasillabi) si preferiscono versi brevi (quinari e settenari), con molte rime. Fino all'Ottocento maturo questa distinzione resta abbastanza forte e infastidirà molto Verdi, che cercherà di ridurla se non di abolirla, sottoponendo alle esigenze della musica anche le parti da recitare.


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Gli spettatori, con il passare del tempo, si interessano sempre più all'aria, dove svetta il cantante e domina la musica e, a un certo punto, i melodrammi saranno, per il pubblico, più un seguito di arie che un vero e proprio dramma. Da qui la messa a punto dell'accennata tipologia metrico-linguistica delle arie, particolarmente adatta al ritmo della musica. I versi si accorciano e si fanno sempre più eguali fra loro, le rime si moltiplicano e sono spesso sdrucciole o, in conclusione, tronche. Prendiamo come esempio il librettista più famoso di sempre (Metastasio) e la sua Olimpiade:

Son qual mare ignoto
naufrago passeggiero,
già con la morte a nuoto
ridotto a contrastar.
Ora un sostegno ed ora
perde una stella; alfine
perde la speme ancora,
e s'abbandona al mar.


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lemond ha scritto: Son qual mare ignoto
naufrago passeggiero,
già con la morte a nuoto
ridotto a contrastar.
Ora un sostegno ed ora
perde una stella; alfine
perde la speme ancora,
e s'abbandona al mar.
Non manca una vocale nel primo verso? :uhm:


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Admin ha scritto:
lemond ha scritto: Son qual mare ignoto
naufrago passeggiero,
già con la morte a nuoto
ridotto a contrastar.
Ora un sostegno ed ora
perde una stella; alfine
perde la speme ancora,
e s'abbandona al mar.
Non manca una vocale nel primo verso? :uhm:
Grazie per l'osservazione, manca addirittura un preposizione, infatti

Son qual per mare ignoto (e dovevo accorgermene, perché che cosa c'entra essere mare ignoto! ) :hammer:


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L'italiano cantato poteva godere di tutte le opportunità di cui già si serviva quello in versi. Per una serie di ragioni (culturali e linguistiche) si era dotato di una gamma di soluzioni per una stessa parola, molto utile per quando si doveva mettere in versi e cantare. Già Petrarca alternava sarebbe, forma toscana, e saria, forma meridionale, ricevuta per via letteraria e così vorrebbe/vorria etc.
Doppioni di questo tipo li si doveva alla storia movimentata del fiorentino, entrato in rapporto con altri volgari toscani, altri alla storia speciale del suo uso letterario. Ad es. si poteva fare in due modi l'imperfetto indicativo dei verbi in -ere e -ire, cioè con o senza la *v* : aveva/ea, partiva/ia. All'inizio le forme erano interscambiabili, ma con tempo la senza *v* è stata avvertita come più dotta e letteraria. Nella sola prima scena del Trovatore troviamo: vivea, dormia, cingeva e nel secondo atto: seguia, sentiva. Stesso discorso per furono e furo, lodarono e lodaro, fecero e fero. Stessa parola, ma con una sillaba in meno: un grande vantaggio per la poesia e ancor più per la musica; per non dire delle doppie forme etimologiche e analogiche di certi verbi come chiedo e chieggio, vedo e veggio, debbo e deggio. Stessa cosa per i nomi conservati integri (pietade, pietate) o troncati (pietà), oppure sincopati (opra) o no (opera). [Qualcuno potrebbe aver scritto o meno, ma non può esistere il *meno sincopato* :bll: ]


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Il linguaggio nel melodramma ottocentesco è assorbito dalle voci dotte e il tempio diventa, nel Nabucco, un (santo) *delubro*, mentre nell'Ernani il cannone è un *bronzo ignivomo*. Nella Straniera di Bellini è un *nappo* quello che è il calice del Macbeth, mentre nell'Attila si beve nelle conche. Altri sinonimi dotti che si possono notare, sono il tetto per la casa, cifre per firma, talamo per letto e matrimonio, larva per maschera, avello per tomba. Anche l'aggettivo è ricercato: la salamandra *ignivora* o la città *altrice* (nutritrice), così come le egre (malate) soglie di La traviata. Per dire basta, smettetela, Violetta, da buon personaggio melodrammatico evita la forma colloquiale e impone signorilmente: "Cessate!" Non mancano talvolta luoghi in cui il linguaggio si abbassa a quello medio, ma l'opzione colta e rara è di gran lunga prevalente.


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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Verso la fine dell'Ottocento l'opera italiana cambia e perfino Verdi muta alcuni tratti del vecchio linguaggio, con l'aiuto del giovane librettista Arrigo Boito; esso si fa meno letterario. A maggior ragione cambia l'italiano della giovane scuola: Mascagni, Leoncavallo, Puccini abbandonano progressivamente le eleganze, le rarità linguistiche della stagione romantica e avvicinano la lingua al suo uso comune. In particolare Puccini trova la musica anche per frasi banali e il prof. Serianni ha dimostrato come i suoi libretti facciano dialogare i personaggi ormai secondo la modalità del discorso di ogni giorno, come in Butterfly, dove il console entra in casa della protagonista, dicendo: "Chiedo scusa ..." E nella Bohème si trovano molti modi della comunicazione ordinaria che prima il melodramma aveva evitato accuratamente e si riducono i resti della lingua illustre. E, nell'italiano comune, come si sa entrano anche le parole straniere (Milk, Punch, Whisky) e perfino esotismi (obi, shosi, kami). L'aria è insomma composta in un italiano di media letterarietà , capace di "abbassarsi" stilisticamente al livello del parlato. Ma fra poco cederà il posto alla canzone. :)


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Per avere un'idea delle differenti radici linguistiche della canzone italiana pre-Modugno, prendiamo, come esempio, la più celebre (nel mondo) di tutti i tempi e un classico degli anni trenta, forse uno dei primi successi di massa, grazie alla radio.
'O sole mio (Capurro-Di Capua, 1898) è in napoletano, a riprova del fatto che la culla della tradizione musicale italiana sia stata la città partenopea e i versi nascono alla partenza del Di Capua per Odessa e, contemplando il Mar nero in una clima molto rigido, il musicista avrebbe pensato al sole della sua terra: prima l'intimità melodica del ricordo (Che bella cosa ...), poi l'esplosione del ritornello famosissimo.
Parlami d'amore Mariù (Bixio-Neri, 1932) - In questa celebre canzone colpisce l'inconsueto nome della protagonista (curiosamente è lei che deve parlare e non il corteggiatore) e in quegli anni ci fu un'impennata onomastica di bambine chiamate Mariù in quell'italietta fascista col culto della donna-madre. Il resto (inversione aggettivo-sostantivo: gli occhi tuoi belli; posposizioni sintattiche: anche se avverso il destino domani sarà; caduta delle atone finali in confine di verso: sospirar) rientra nell'armamentario della canzone classica, la cui popolarità non mancherà di influenzare alcune delle scelte linguistiche degli italiani.


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Mariù sarà un'elisione/troncamento di Mariuccia, credo. Ma allora marò? :uhm:


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Admin ha scritto:Mariù sarà un'elisione/troncamento di Mariuccia, credo. Ma allora marò? :uhm:
Ma probabilmente sarà stato scelto per la rima con blu, tu, più. O forse 24 dic 2013 - BARGA (Lucca), 24 dicembre – Il 5 dicembre 1953 moriva Maria Pascoli, detta Mariù, la “dolce sorella” del noto Giovanni. Sono passati sessant'anni. Era sopravvissuta al fratello per oltre quarant'anni durante i quali aveva conservato la sua memoria. Sempre nel suo eremo di Caprona, in Valle del Serchio.


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Il folle volo di Modugno

La rivoluzione tematica e interpretativa del 1958 (da Mimmo Modugno al Festival di Sanremo con Volare) è qualcosa di epocale: uno spartiacque fra la canzone tradizionale e quella moderna. Senza Modugno e qualche altro precursore, come Renato Carosone e Fred Buscaglione, non sarebbe stato possibile il fenomeno dei cantautori, che riunisce in sé i ruoli, prima distinti, di musicista, paroliere e interprete. [Ma forse sarebbero arrivati lo stesso, visto che Gaber e De André non hanno mai fatto mistero di essersi formati alla scuola francofona di Jacques Brel e Georges Brassens] In essi si nota un deciso abbassamento di tono del lessico, che diventa simile al quotidiano e vicino al parlato. Chi, prima di Modugno, avrebbe potuto esclamare (come Luigi Tenco) che si era innamorato, perché non aveva niente da fare? Forse solo un "cinico" di provincia come Fred Buscaglione, che assomiglia un po' a Clark Gable e che possiede una voce affatto particolare, come arrochita dal whisky (facile) e quel canto recitato sa interpretare e valorizzare la parola, ma, al tempo stesso, è puntualissimo nei tempi e nei ritmi. Un precorritore, il nostro Fred, la cui lezione troverà echi in personaggi come Celentano, Jannacci, Conte.


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Il 29 gennaio 1958 Modugno non poteva saperlo, ma quella sera era nata la "nuova" canzone italiana. A "Volare" è toccato un destino unico nella storia formata da parole e musica: essere uno spartiacque linguistico, culturale e di costume tra la canzone "ancien regime" e quella d'autore.
La vera novità linguistica è quell'infinito sostantivato, esplosivo e reiterato, di sapore futurista, voluto da Modugno e accettato da Migliacci, che non a caso divenne proverbiale e forse influenzò tanta titolistica. Nella sua analisi testuale di "Nel blu dipinto di blu" N. La Fauci ha osservato che il ritornello è un caso esemplare di essenzialità espressiva (ogni orpello è bandito).
Non stupisce, allora che, grazie a tale carattere, abbia potuto esorbitare dall'italofonia e suonare comprensibile e accattivante anche nella versione americana; quasi fosse un'espressione adatta a chi orecchia anche solo un po', di italiano. Volare resta la testimonianza indelebile di un desiderio di riscatto dall'arretratezza e povertà (non volano forse i poveri di Miracolo a Milano?) che un figlio del meridione trasforma, alle soglie della modernità, in un sogno, di li a poco, possibile. :)


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I cantautori

Il ventennio d'oro (anni Sessanta/Settanta) è uno dei più ricchi e fecondi della storia, non solo linguistica, della canzone italiana. Ma, date le esperienze molteplici non è possibile parlare di una lingua della canzone d'autore, anche se si può generalmente alludere a un confronto, più che a un incontro, con il coevo linguaggio poetico.

Il cielo in una stanza (Paoli, 1960) - Avevo la volontà di descrivere l'orgasmo, in quell'attimo cioè nel quale sei proiettato nell'infinito, sei tutto e non sei niente. Quel momento puoi provarci cento volte, ma non riuscirai mai a descriverlo, però, se pensi a una spirale e tutto quel che c'è intorno, è come se ricostruissi il centro ... le pareti, la finestra, la musica da fuori.

Tra le canzoni più amate di tutti i tempi, è un esempio significativo e precoce delle novità apportate ai testi dai cantautori genovesi: completamente destrutturato, con quattro strofe di lunghezza differente, l'assenza di un vero e proprio ritornello. Notevole anche la mancanza di rime o ritorni fonetici. È molto originale anche la descrizione surreale, ma al tempo stesso figurativa, dell'incontro amoroso.


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Mi sono innamorato di te (Tenco, 1962) è spesso citata come esempio della rivoluzione innescata dalla "scuola genovese" degli anni Sessanta. Pur non rappresentando un materiale linguistico particolarmente innovativo, scuote dalle fondamenta la tradizionale visione dell'amore nelle canzonette. Il ritornello compare una sola volta, perdendo così la ragione stessa del proprio nome, sulla scia di Arrivederci del 1958 (Bindi-Calabrese) dove era stato eliminato del tutto. Ma la maggiore forza estraniante si ritrova nei primi tre versi, che gettano sull'autore la volontà e quasi la responsabilità del sentimento amoroso, scompaginando mezzo secolo di canzonette sdolcinate.



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lemond ha scritto:Mi sono innamorato di te (Tenco, 1962) è spesso citata come esempio della rivoluzione innescata dalla "scuola genovese" degli anni Sessanta. Pur non rappresentando un materiale linguistico particolarmente innovativo, scuote dalle fondamenta la tradizionale visione dell'amore nelle canzonette. Il ritornello compare una sola volta, perdendo così la ragione stessa del proprio nome, sulla scia di Arrivederci del 1958 (Bindi-Calabrese) dove era stato eliminato del tutto. Ma la maggiore forza estraniante si ritrova nei primi tre versi, che gettano sull'autore la volontà e quasi la responsabilità del sentimento amoroso, scompaginando mezzo secolo di canzonette sdolcinate.

Per il tema musicale invece senti qui: (guarda caso, gennaio 1962... :fischio: ).


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Ma Tenco ci ha messo sopra le parole e la musica da sola è altra cosa.


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lemond ha scritto:Ma Tenco ci ha messo sopra le parole e la musica da sola è altra cosa.
Era solo una curiosità; Tenco pare fosse un appassionato di jazz, ed e più che probabile che quel brano l’avesse ascoltato, rimanendone colpito... :boh:


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Bitossi ha scritto:
lemond ha scritto:Ma Tenco ci ha messo sopra le parole e la musica da sola è altra cosa.
Era solo una curiosità; Tenco pare fosse un appassionato di jazz, ed e più che probabile che quel brano l’avesse ascoltato, rimanendone colpito... :boh:
Questo sembra poco, ma sicuro. :) Molti cantautori sono stati ispirati anche dal jazz. Il quale, da solo, mi annoia parecchio, ma se condito, è come la verdura, può essere gradevole. ;)


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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La guerra di Piero (De André, 1964) È una delle più famose canzoni pacifiste, una ballata ormai presente in numerose antologie scolastiche. Il testo è di Faber, mentre la musica fu scritta con il chitarrista V. Centanaro.
Da un punto di vista metrico-retorico la si può considerare una canzone paradigmatica di tutta la prima produzione deandreaiana, a cominciare dalla rima, quasi sempre perfetta. Diverse le figure retoriche, come la metafora: croce=morte, inferno=guerra, anima in spalle=angoscia, tristezza; la prosopopea (per cui si trattano come viventi e pensanti anche cose inanimate) e numerose sono le anafore: sparagli Piero, sparagli ora/ e, dopo un colpo, sparagli ancora.
Il lessico infine presenta pochi termini ricercati (esangue e premura), mentre crepare ricalca il linguaggio popolare.



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Faceva il palo (Jannacci-Valdi 1966) Enzo, milanese di origine meridionale (infatti il suo nome vero è Vincenzo) è stato un soggetto poliedrico: oltre che cantautore, medico, cabarettista e attore. È stato amico di Gaber, Fo (con cui ha scritto "Ho visto un re"), Beppe Viola, Cochi e Renato. Nel suo testo usa un linguaggio immediato, semplice, ma tutt'altro che banale, vicino al parlato e, spesso, fa ricorso al dialetto. Sceglie insomma un registro basso, che aderisce alla realtà che racconta, ma che finisce per risultare raffinato ed efficace. A lui dobbiamo alcuni dei più folgoranti ritratti: storie di perdenti, sfortunati, ridicoli, ma che, a loro modo, non si lasciano andare. È il caso dell'Armando che uccide per amore, del barbone che insegue un sogno e il tipo che si ostina a cercare compagnia anche quando gli rispondono sempre "no, tu no". Il testo della canzone in oggetto è opera però di Walter Valdi, estrosa figura di avvocato, cantautore e umorista, cultore del dialetto milanese. Nella storia della "banda dell'Ortica" è evidente il modello della canzone popolare; Valdi ricorre al felice connubio di italiano e dialetto, per raccontare una storia in bilico fra il comico e la tragedia umana. La stralunata interpretazione di Jannacci fa il resto. ;)



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Bartali (Conte, 1975) L'avvocato di Asti è sempre stato più musicista che paroliere, ma è riuscito a creare una grande poesia per musica: ironica, elegiaca, a tratti civile. In questa canzone descrive l'italiano del secondo dopoguerra, con la sua ruvidezza campagnola, al quale farà piacere un bel mazzo di rose, anche se una birra fa gola di più; ed è fornito di quel naso triste come una salita e di quegli occhi allegri da italiano in gita. Il profilo linguistico è medio, con esotismi antiquati come cellophane e caucciù, che forgiano immagini poetiche, subito, però, quasi irrise da parole basse, riferite ai francesi, i primi scherniti dalle vittorie dell'eroe. Autore di metafore inusitate e di immagini quasi cinematografiche, Paolo Conte lavora nelle asperità foniche e nelle ristrettezze ritmiche della lingua italiana per distillare ...



P.S. A me la musica non piace per niente (mi sembra jazz :x ) e le parole nemmeno. :)


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Generale (De Gregori, 1978) Come gli succede spesso, l'artista romano affronta il tema bellico (il periodo dell'occupazione nazista).
Ci troviamo di fronte a quattro sequenze, apparentemente staccate l'una dall'altra; spetta all'ascoltatore compiere l'atto di rimontarle e dare loro un senso finale. Il narratore si rivolge sempre a un fantomatico generale, che diventa il simbolo di chi ha voluto la guerra. Ognuna delle strofe comincia con l'anafora del termine che dà il titolo alla canzone, diverse e imperfette le rime, che non seguono uno schema fisso. Il lessico si pone su un versante colloquiale, una mimèsi del parlato. Fra le figure retoriche, oltre l'anafora, l'isocolo, cioè la corrispondenza formale, sintattica o ritmica di parti diverse dello stesso periodo (venuti al mondo come conigli/partiti al mondo come soldati; buoni da mangiare, buoni da seccare. Di sicuro effetto poetico, infine, l'accostamento inconsueto avverbio-sostantivo nei versi conclusivi: è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore.



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Centro di gravità permanente (Battiato, 1981) Nel corpus sterminato dei brani di Battiato musica e testo s'incontrano e scontrano, alternando sperimentalismo, giocosità, impegno, misticismo con un rigore stilistico fuori della norma. Questa canzone resta nella memoria collettiva come uno dei testi simbolo e più enigmatici: un riuscito "divertissement" linguistico dai toni vagamente moraleggianti. La struttura è basata sulla contrapposizione tra brevi strofe, formate da elenchi di personaggi non correlati, senza un vero sviluppo narrativo, con un ritornello più lineare, veicolante il tema centrale del brano. Si fa una commistione di cultura alta e bassa con ricerca di un'autonomia frasale, attraverso l'uso dei periodi in cui il perno centrale è il nome, non il verbo, i salti logici, la parsimonia nell'uso delle rime, le figure retoriche di suono (assonanza e allitterazione) e l'assenza di punteggiatura. Possiamo insomma notare una tendenza all'emancipazione dagli altri cantautori e un certo disprezzo verso lo sviluppo della cultura operato dalla contemporaneità. Nel finale, in inglese, si scorge un altro degli stilemi di Franco: il plurilinguismo, come per dire che, per sopravvivere alla volgarità delle mode si debba instancabilmente operare uno sforzo di autonomia.



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La musica che gira intorno (Fossati, 1983) Dopo una fase commerciale, avviene una svolta di questo cantautore genovese con l'album Ventilazione. In questo senso, La Musica che gira intorno (che sta ne Le città di frontiera) si presenta davvero come un lavoro di passaggio. Linguisticamente c'è una forte presenza di segnali riconducibili all'oralità, in particolare frasi scisse, uso di gli per loro, utilizzo di particelle discorsive e l'uso del ma rafforzativo della preposizione interrogativa o esclamativa. Altri elementi tipici sono le presenza di frasi apodittiche e l'iterazione, come, infine, la particolarità del ritornello strutturato quasi come un anacoluto.
Il lessico rimanda spesso al viaggio (compresi i nomi di città e Paesi) e questo ci permette di segnalare che lo spostamento, la migrazione e, appunto, il viaggio stesso è un vero e proprio "topos" della sua produzione.
P.S. Sarà per questo che non l'ò mai ascoltato e questa volta, credo, sarà la prima. :)



P.P.S. Mi sono accorto che invece "I treni a vapore" l'avevo sentita, ma nella versione di Fiorella Mannoia e solo ora ho scoperto che era sua.


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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Crêuza de mä (De André-Pagani, 1984) L'album è, per certi versi, rivoluzionario e memorabile: un lavoro etnico dedicato al bacino del Mediterraneo, fatto di suoni e strumenti lontani dalla tradizionale canzone d'autore. Molti critici hanno parlato di una lingua arcaica, ottocentesca, ma, se si analizza il disco, si scopre che le cose non stanno proprio così. I termini derivati dall'Ottocento si amalgamano bene con quelli più recenti, giungendo persino a scelte non riscontrabili nei principali vocabolari genovesi. Non vi è insomma nessuna intenzione di recuperare filologicamente una lingua, bensì la volontà di creare una lingua mai esistita, la sua. Da confutare anche un'altra interpretazione, che riguarda agli arabismi: il genovese non presenta un maggior numero di termini di origine araba rispetto ad altri dialetti e gli arabismi sono addirittura assenti nella canzone che dà il titolo al tutto.
Da un punto di vista metrico il brano si divide in quattro strofe, composte di sei versi endecasillabi tronchi, con rima baciata.
Crêuza ha fatto epoca sia nella produzione di Faber, che come prototipo di una canzone "neodialettale".



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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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lemond ha scritto:Generale (De Gregori, 1978) Come gli succede spesso, l'artista romano affronta il tema bellico (il periodo dell'occupazione nazista).
Ci troviamo di fronte a quattro sequenze, apparentemente staccate l'una dall'altra; spetta all'ascoltatore compiere l'atto di rimontarle e dare loro un senso finale. Il narratore si rivolge sempre a un fantomatico generale, che diventa il simbolo di chi ha voluto la guerra. Ognuna delle strofe comincia con l'anafora del termine che dà il titolo alla canzone, diverse e imperfette le rime, che non seguono uno schema fisso. Il lessico si pone su un versante colloquiale, una mimèsi del parlato. Fra le figure retoriche, oltre l'anafora, l'isocolo, cioè la corrispondenza formale, sintattica o ritmica di parti diverse dello stesso periodo (venuti al mondo come conigli/partiti al mondo come soldati; buoni da mangiare, buoni da seccare. Di sicuro effetto poetico, infine, l'accostamento inconsueto avverbio-sostantivo nei versi conclusivi: è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore.

E' scritto che il periodo è quello dell'occupazione nazista.
Chissà perchè, ma a me è sempre parsa una narrazione sulla fine della prima guerra mondiale.
Canzone che canticchiavo continuamente il giorno in cui, nel tardo pomeriggio, mi fu consegnata la cartolina azzurra di chiamata alle armi.


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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nino58 ha scritto:
lemond ha scritto:Generale (De Gregori, 1978) Come gli succede spesso, l'artista romano affronta il tema bellico (il periodo dell'occupazione nazista).
Ci troviamo di fronte a quattro sequenze, apparentemente staccate l'una dall'altra; spetta all'ascoltatore compiere l'atto di rimontarle e dare loro un senso finale. Il narratore si rivolge sempre a un fantomatico generale, che diventa il simbolo di chi ha voluto la guerra. Ognuna delle strofe comincia con l'anafora del termine che dà il titolo alla canzone, diverse e imperfette le rime, che non seguono uno schema fisso. Il lessico si pone su un versante colloquiale, una mimèsi del parlato. Fra le figure retoriche, oltre l'anafora, l'isocolo, cioè la corrispondenza formale, sintattica o ritmica di parti diverse dello stesso periodo (venuti al mondo come conigli/partiti al mondo come soldati; buoni da mangiare, buoni da seccare. Di sicuro effetto poetico, infine, l'accostamento inconsueto avverbio-sostantivo nei versi conclusivi: è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore.

E' scritto che il periodo è quello dell'occupazione nazista.
Chissà perchè, ma a me è sempre parsa una narrazione sulla fine della prima guerra mondiale.
Canzone che canticchiavo continuamente il giorno in cui, nel tardo pomeriggio, mi fu consegnata la cartolina azzurra di chiamata alle armi.
Non ti posso aiutare, perché non sono un esperto di De Gregori, anche se questa canzone mi piace.


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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Le lingue cambiano, ma noi possiamo leggere e capire la lingua italiana antica e chi non ci crede provi a sfogliare il Decameron di Boccaccio e vedrà che non avrà bisogno di nessun vocabolario per comprendere. I nostri concittadini europei non hanno questa possibilità : un inglese di media cultura non riuscirà a leggere Skapeskeare e un francese Rabelais. Il motivo è che l ruolo di modello linguistico, che negli altri paesi era svolto da un'autorità politica centrale, mentre da noi (non essendoci uno Stato unitario) è stata la letteratura a darci un'identità nazionale e così la lingua usata dagli scrittori è rimasta per secoli quasi invariata.

Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir' mi rimembra
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior' che la gonna
leggiadra ricoverse
co l'angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole estreme.

Quanti anni sono passati da quando è stata scritta?

Questo patrimonio è ancora nostro, dobbiamo solo richiamarlo alla memoria, è come una casa avuta in eredità dai nostri nonni, forse l'arredamento avrà un gusto un po' "retro" ma, la consistenza dei muri, l'ampiezza delle stanze e la loro altezza forse ci meraviglieranno in senso positivo. :)


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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Scrive Tullio De Mauro in "Storia linguistica dell'Italia unita" - Col tempo l'armoniosità della favella italiana è diventata una certezza di massa. L'italiano è la sola lingua europea i cui diversi dialetti posseggano una prerogativa particolare e si possono comporre versi e scrivere libri in ciascuno di essi, allontanandosi anche molto dall'italiano classico. Ma su tutti spicca il toscano, che è paragonato addirittura al greco antico e, poiché è parlato spontaneamente anche dagli incolti, crea, in chi ascolta, l'illusione di trovarsi nell'Atene classica. :) È una vera gioia ascoltare i toscani, compresi quelli delle classi "inferiori". Le loro espressioni, piene di immaginazione e di eleganza, dànno l'idea del piacere che si doveva provare ad Atene, quando il popolo parlava quel greco armonioso che era come una continua musica. Credere di essere in mezzo a una nazione in cui tutti gli individui siano egualmente colti, tanto da sembrare appartenenti al ceto dominante, è una sensazione affatto speciale. Per lo meno è questa l'illusione prodotta almeno temporaneamente dalla purezza della lingua -.


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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L'italiano è la quarta lingua più studiata al mondo, dopo inglese, spagnolo e cinese. Gli stranieri che lo studiano nella maggior parte dei casi lo fanno perché la trovano bella e poi permette loro di apprezzare al meglio ciò che l'Italia offre: arte, musica, cibo, paesaggio. Non si tratta di una motivazione utilitaristica, come per l'inglese; dice Elisabeth Gilbert (scrittrice) - L'aspetto interessante dei miei compagni di studio è che nessuno ha davvero bisogno di essere qui e una russa dal viso triste mi ha riferito che si è regalata queste lezioni, perché ha pensato di meritare qualcosa di bello. -
Queste parole dovrebbero essere meditate da chi usa (male) l'inglese per sembrare un po' più alto o similia. :x
Acclamata da molti come la lingua più musicale, forse è anche quella che esprime meglio le emozioni e i suoni primari, quasi identici a quelli che echeggiavano negli anfiteatri e nei fòri dell'antica Roma, trovano corrispondenza nell'A.D.N. ( acido desossiribonucleico in italiano l'acronimo è questo e non l'altro copiato dagli americani!) linguistico di tutti noi.


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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È quasi impossibile definire in maniera precisa la connotazione dei suffissi cosiddetti diminutivi/accrescitivi/vezzeggiativi etc, perché le parole si sono consolidate attraverso l'uso e talvolta sono anche sorprendenti, come giocatoraccio, che è tutto il contrario di quel che sembrerebbe, infatti significa giocatore bravo ed esperto (anche se, forse, fuor di toscana non si usa). Signorina e signorino non sono l'uno il maschile dell'altra e il secondo è molto meglio del signorotto. E alle donne chi piacerà di più: il bellino o il belloccio? E fra cavalluccio e avvocatuccio la differenza è sostanziale, perché il primo non è per niente dispregiativo. L'omino della gru o del parcheggio non ha nulla a che vedere con la prestanza atletica del tipo e ... potremmo proseguire. :)


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Re: Lingua italiana, domande e risposte.

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Uno strumento fantastico per conoscere e apprezzare il nostro lessico è il Dizionario dei sinonimi di Niccolò Tommaseo, pubblicato nel 1830 e, ancora oggi, insuperato per la ricchezza fraseologica e la vividezza idiomatica. Non possiede la scientificità di altri dizionari, ma può essere letto come un racconto che ha per oggetto le parole. ;) Un'ottimo metodo per reagire alla tendenza odierna all'appiattimento linguistico e quindi alla povertà di vocaboli che fa usare molto spesso (e una volta è già troppo :x ) una parola che non significa nulla (al di là del genere maschile di un animale noto per la sua stupidità), dandogli un significato universale! :grr:
Prendiamo ad es. la parola discutere, essa chiede gran forza di riflessione, mentre dibattere porta più calore. Si discute per discernere in una materia la parte vera e accettabile dalla rigettabile e falsa. Ci si agita e si dibatte talvolta senza arrivare a nulla, mentre la discussione ci fa vedere il momento più operoso, più decisivo e conclusivo dell'agitarsi. :)
Si sente il forte toscanismo dell'autore, ma anch'esso può avere il suo fascino. :)


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