Felice ha scritto: Il punto debole di questo modo di procedere figura anch’esso nelle sue parole (di Marchionne, mio inserimento): “l’unica cosa che conta sono…. e se le macchine vengono vendute”. Già, perché per comprare le macchine ci vogliono i soldi e se i soldi la gente non li ha….
Purtroppo, Felice, il problema non sono per nulla i bassi salari della classe lavoratrice (questa è la tesi della sinistra). Bassi salari = alti profitti, le imprese lo sanno bene. E se anche i salari crescessero, devono crescere relativamente meno degli aumenti di produttività (condizione che effettivamente avveniva nel periodo 1945-1975).
Il problema è che maggiore produttività significa minor produzione di valore, poichè in seguito all'impiego di macchinari che rimpiazzano lavoratori, ogni unità di un bene incorpora quote decrescenti di valore, dal momento che solo il lavoro umano crea valore. In pratica, le singole imprese sono spinte a impiegare sempre più macchinari per essere più produttive dei concorrenti, ossia per abbassare i costi di produzione. Ma a livello sistemico, ciò si traduce in una minor produzione di valore (riflessa in milioni di disoccupati a livello globale). Ciò è esemplificato perfettamente da quanto avviene nell'industria hi-tech, dove computer, cellulari e affini costano sempre meno, nonostante la domanda per questi prodotti sia in costante crescita, e non si possa certo dire che le industrie produttrici operino in mercati concorrenziali.
Come hanno risposto storicamente i Marchionne e affini a questa 'legge' (+produttività = - produzione valore = - tassi di profitto) intrinseca alla produzione capitalista? Semplice: spostando le produzioni in zone a basso costo, nei paesi periferici, e tagliando i salari (e i diritti) in quelli centrali. In altre parole, aumentando i tassi di sfruttamento della manodopera, sia nel centro che nella periferia, al fine di ripristinare i tassi di profitto.
Ora, tu implicitamente sostieni che aumentare i tassi di sfruttmanto significa però creare problemi di domanda aggregata. Esatto, ma a 2 precise condizioni:
a) che la caduta del consumo dei beni salario dei lavoratori non venga ovviata dall'aumento della domanda dei beni di lusso e d'investimento da parte degli imprenditori e delle imprese;
b) che alla caduta del beni di consumo dei lavoratori non faccia da contraltare l'aumento della domanda da parte di una nuova classe media;
Alla luce della:
a1) crescita esponenziale delle diseguaglianze del reddito che si riflettono in una crescita senza precedenti dei beni di lusso consumati da una classe capitalista che ha perso ogni contatto con la famosa 'frugalità' (quella rimane solo nei testi di economia, dove il consumo e l'investimento dipende dal risparmio);
b1) crescita imperiosa di una nuova classe media nel sud-est asiatico e sud-america (Brasile in particolare) - sebbene minoritaria rispetto al resto della popolazione autoctona (ma ben maggiore della classe lavoratrice occidentale, in termini assoluti) - in grado di avanzare una domanda crescente di beni di consumo una volta espressa solamente dai paesi di vecchia industrializzazione
Credo che i problemi (capitalistici, ossia la crisi odierna) non si possano ricondurre ai bassi salari della classe lavoratrice. Le imprese questo lo sanno bene. Ripeto: - salari = + profitti. Il problema sta nella contriddorietà di un sistema che periodicamene necessità dell'allargamento del mercato (vedi, le guerre odierne); e di crisi (vedi, la distruzione della concorrenza che travolge con sè i diritti e i salari dei lavoratori ivi impiegati) per rigenerarsi.
Ciò non significa affatto che bisogna incrociare le braccia e aspettare che il sistema crolli per magia! O assumere atteggiamenti alla trifase/tic, secondo cui non ci sarebbe nulla da fare e quindi l'unica alternativa sarebbe l'opportunismo, cercando di raccogliere le bricioline che cadono dalle tavole imbandite.
Al contrario, lottare per alti salari e per più welfare è sacrosanto. Ma a mio avviso bisogna farlo nella consapevolezza che queste lotte aggravano la crisi ma ciò, al contempo, crea le condizioni per il superamento di un sistema irrazionale.
Per rispondere ad una mail che mi è arrivata pochi giorni fa, non si tratta di essere comunisti con o senza k (i primi buoni e ragionevoli, i secondi cattivi e incazzosi). Si tratta di avere la consapevolezza che le 'riforme' (i comunisti senza k) di cui ha beneficiato la classe lavoratrice (ma ancor di più, quella capitalista) sono avvenute in un contesto storico peculiare (post II guerra mondiale), oggi terminato. Non è un caso che tutti i governi comunisti (senza k) dal 1980 in poi nel centro occidentale non si siano discostati nella sostanza (solo nella forma) dalle politiche perseguite dai governi più sfacciatamente liberisti. Basti osservare quel che è avvenuto in Italia (pci col compromesso storico in poi, e la politica accomodante del sindacato da 30 anni a questa parte), Francia, Spagna, Nuova Zelanda, paesi scandinavi, gli Stati Uniti di Obama, ecc ecc. La lista è lunga.
La trippa per gatti è finita, i Marchionne lo hanno capito bene, e raschiano e distruggono. Molti a sinistra non lo hanno ancora capito, e brancolano nel buio. E parte della classe lavoratrice, avendo perso i punti di riferimento storici, volge lo sguardo ai cialtroni che promettono di proteggerla dalle intemperie della 'globalizzazione' (la dinamica sopra destritta). Ciò spiega la crescita esponenziale a) dei partiti xenofobi, dal momento che la concorrenza tra lavoratori meno qualificati è un problema serio, con solide basi materiali: non è un caso che la Lega peschi proprio in questo bacino; e b) dei governi 'tecnici' (appunto, tra socialdemocrazia e liberisti non c'è più alcuna differenza nella sostanza, vedi sopra), che promettono di 'salvare' i mercati, da cui dipendiamo sempre più pesantemente per la nostra sopravvienza.