Mi associo agli apprezzamenti per il post di FVDB.Frank VDB ha scritto:Pur non avendo letto per brevità tutti i messaggi precedenti (mi scuso per eventuali ripetizioni), sono anch'io dell'opinione che il ciclismo italiano sia finito.
Il punto non è il rifiuto di uno sport di fatica: altrove il ciclismo è diventato sport molto trendy, associato anche alla promozione dell'uso urbano della bici e alla promozione della sua valenza ambientale tra le classi agiate. A Londra a vedere la prova olimpica c'erano un milione e passa di spettatori! E parliamo di un paese senza alcuna tradizione di ciclismo agonistico. A vedere le prove della pista c'era la famiglia Reale e Chris Hoy è diventato un eroe della delegazione inglese.
Da noi? Beh, da noi:
1) non si è mai fatta una seria politica di promozione giovanile, di tutela della bici e di veicolo per la mobilità;
2) non si è mai fatta azione di lobbing rispetto alle problematiche relative al traffico e alle strade: i genitori sono terrorizzati dal mandare un figlio alla scuola di ciclismo per i pericoli che subisce in strada! E hanno ragione.
E con questi due punti abbiamo spiegato già un buon 70% del perchè il ciclismo italiano è alla frutta: manca una seria azione di base di promozione della bici.
A cascata, poi, le conseguenze si vedono nel mondo professionistico: meno bambini allevati nelle squadre, meno professionisti, meno probabilità di trovare un fuoriclasse. Meno "appeal" del ciclismo e della bici sui potenziali spettatori, meno sponsor, meno investimenti, meno soldi per i grandi team o per i campioni, che scappano a correre all'estero.
Poi il ciclismo italiano soffre di eccesso di "parrocchialismo": gli amichetti della parrocchietta prima corrono, poi diventano direttori sportivi, o tecnici, o opinionisti, si autocelebrano nelle cene invernali, il tutto contribuendo a creare un ambiente da conventicola autoreferenziale. Da quella dei mostri sacri degli anni '60 e '70 intervistati tutti gli anni dalla Rai nelle tappe da sbadiglio del Tour, a quella dei pedalatori degli anni '80 e '90 diventati subito Ds, team manager o collaboratori di Rcs Sport. Gestiscono squadre ricorrendo alle cerchie della conventicola, senza un briciolo di preparazione manageriale, senza sapere cosa è la comunicazione, come si gestisce un campione... ricordatevi sempre che ai tempi in cui Pantani era il massimo sportivo italiano, aveva un portavoce personale (un disastro) mentre la squadra (che qualcuno lodava perchè i corridori potevano trovare famigliarità nel dialetto!!!) non era in grado di gestire mediaticamente un patrimonio di quel calibro.
Non voglio andare fuori tema e torno a bomba: ma voi dareste soldi a squadre così?! Cioè, con la crisi economica che c'è, voi daresti in mano 1,2 o 3 milioni di preziosissimi euro (pochi nel ciclismo di oggi) ad un ciclista ritiratosi qualche anno fa, con la pancia e la barba incolta che mette su una squadra in cui ognuno si allena a casa sua, con il suo massaggiatore e il suo medico, col rischio che poi venga travolto da qualche scandalo? No, non li daresti: li dareste magari ad una struttura magari eticamente più compromessa, ma con uno staff manageriale che curi al millimetro il profilo sportivo, la comunicazione, il merchandising, il business, il rapporto con la politica... in altre parole, gli stessi soldi, anzichè darli ad una squadra di ciclismo, li date ad una squadra di calcio di serie B, perchè vi sentite di avere fatto un migliore investimento.
E senza soldi, il ciclismo muore. Anche se è il maggior veicolo pubblicitario attualmente in circolazione, quanto meno in termini di rapporto tra investimento e visibilità.
Senza soldi non si allestiscono grandi squadre, non si allevano giovani, non si aprono squadre giovanili... non arrivano i successi e i nostri corridori migliori (quei pochi...) scappano all'estero.
Paradosso: da sport popolare il ciclismo è diventato sport di élite. Lo praticano banchieri, manager pubblici, presidenti della Rai, industriali di successo internazionale. Ma le loro aziende? Non scuciono una lira... un euro... niente. Ci sarà un perchè?
Forse perchè a sentire un vecchio trombone del passato che in tv, il giorno del trionfo di Wiggins a cronometro al Tour, non ha altro da dire che sui calzini neri dell'inglese che non erano il massimo... forse perchè andare in un raduno di partenza e sentire Ds che si esprimono in dialetto e che reclutano massaggiatori e meccanici un tanto al chilo, mentre Sky investe 20 milioni di euro ed ha una struttura aziendale di supporto ai corridori... forse perchè quando vedono che il mondo del ciclismo non fa nulla per togliersi di dosso la sua patina contadinotta (con rispetto parlando) e ama presentarsi con il volto del vecchio corridore semi analfabeta che fa ridere tutti... forse perchè quando hanno messo insieme questi elementi e quelli che non ho detto, al massimo organizzano una granfondo e lasciano lo sport della bici morire lentamente...
Credo però sia giusto mettere in evidenza due variabili non irrilevanti nel quadro da lui ben tratteggiato.
Innanzitutto, pur nella giusta critica delle competenze manageriali di molte figure naïf del ciclismo italiano, non approvo la correlazione con il mondo del calcio (peraltro gravato da scandali micidiali e da evidente incompetenza, data la situazione attuale). Non dobbiamo dimenticare che il ciclismo è, cronologicamente, la prima e più grande “vittima” della supremazia totale del calcio sugli altri sport italiani: un fenomeno che, per proporzioni, non ha eguali nel resto d’Europa e che, appunto, affonda le proprie radici nella Storia e nella storia politica del nostro Paese, a partire dal secondo dopoguerra. La questione è trattata in modo semplice, ma utile, in alcuni passaggi (cito a memoria, sperando di non ricordare male) del libro: D. Marchesini, L’Italia del Giro d’Italia, Il Mulino, Bologna 1996.
La seconda variabile riguarda la struttura profonda del capitalismo italiano.
Quando FVDB scrive:
Frank VDB ha scritto:Paradosso: da sport popolare il ciclismo è diventato sport di élite. Lo praticano banchieri, manager pubblici, presidenti della Rai, industriali di successo internazionale. Ma le loro aziende? Non scuciono una lira... un euro... niente. Ci sarà un perchè?...a me, immediatamente, vengono in mente nomi e volti di alcuni imprenditori che, complessivamente, stimo perché hanno saputo posizionare la propria produzione e i propri “marchi” anche sui mercati internazionali, senza limitarsi a usare il nostro Paese come “riserva di caccia” protetta.
Il “problema” di questi imprenditori è che il loro core business, storicamente e spesso ancora oggi, è legato a brand che coincidono con il cognome di famiglia.
Inutile nasconderci: chi si azzarderebbe a sponsorizzare con il proprio cognome uno sport che risulta, purtroppo, costantemente a rischio “scandali” (doping e altre amenità) come il ciclismo attuale? Non possiamo chiedere tanto a queste persone...
Certo, essendo imprenditori spesso dalle multiformi attività, potrebbero farlo con altri marchi, non riconducibili direttamente alla loro persona/famiglia. Potrebbero farlo, sostanzialmente, “di nascosto”…in questo caso, però, si tratterebbe di sostanziale beneficienza, non di sponsorship. Sinceramente, spero e credo che questi imprenditori già facciano beneficienza per cause umanitarie più importanti di uno sport professionistico