Filosofia

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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale XXXIII

La prima via di salvezza quindi, secondo Kant è fare come se Dio ci fosse (avente presente Mauro Biglioni e il suo facciamo finta che? ;) ), ma la seconda, quella di cui va orgoglioso è il c.d. *imperativo categorico* ovvero avrei un comportamento moralmente corretto se "agisci in modo che anche tutti gli altri possano fare lo stesso!" Ad es. il suicidio è *immorale*, perché se ... porterebbe al'estinzione dell'umanità. ;)
Kant però si rendeva conto che, se l'azione morale non deve riscuotere alcun premio, all'uomo può venire a mancare ogni incentivo e allora il Nostro si inventa tre postulati per la morale:
a) la libertà dell'individuo
b) l'immortalità dell'anima
c) l'esistenza di Dio
Ecco così che in sede etica, il filosofo di Königsberg va diritto verso la metafisica, perché, come dice lui stesso, i postulati sono indimostrabili, però, per salvarci, dobbiamo far finta che siano veri. ;)


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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale XXXIV

Georg Wilhelm Friedrich Hegel fu il gran sacerdote della ragione e infatti il suo aforisma supremo recita: *Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale*. In lui la presunzione dell'uomo non ha limiti, perché la realtà è dominata dalla filosofia, anche se essa si rende conto un po' per volta del proprio potere. Certo che esistono anche sentimento e passione, ma guai a essi se vogliono uscire dai binari della ragione! E Hegel fu acclamato *profeta in patria* (solo per lui i tedeschi tolsero il *nemo* ;)
Se presa alla lettera quel suo aforisma/assioma di partenza può essere (e fu) contestabile, ma a pensarci bene è tutt'altro che insensata e Hegel non nega che ci siano nella realtà anche fango, sporcizia e quant'altro, ma sono solo accidenti senza peso nella realtà e nel pensiero. Quel che per lui è chiaro è che la realtà marcia verso un'unica direzione, perché i posteri sono avvantaggiati dal sapere tramandato dai predecessori e ha sempre detto che lui aveva tratto ben giovamento da Parmenide, Eraclito, Platone e Spinoza. Il primo per la totalità dell'universo, il secondo per il movimento, il terzo per la dialettica e l'ultimo per il panteismo. [continua]


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lemond ha scritto: martedì 23 luglio 2019, 9:23 Piccola storia della Filosofia occidentale XXXIV

Georg Wilhelm Friedrich Hegel fu il gran sacerdote della ragione e infatti il suo aforisma supremo recita: *Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale*. In lui la presunzione dell'uomo non ha limiti, perché la realtà è dominata dalla filosofia, anche se essa si rende conto un po' per volta del proprio potere. Certo che esistono anche sentimento e passione, ma guai a essi se vogliono uscire dai binari della ragione! E Hegel fu acclamato *profeta in patria* (solo per lui i tedeschi tolsero il *nemo* ;)
Se presa alla lettera quel suo aforisma/assioma di partenza può essere (e fu) contestabile, ma a pensarci bene è tutt'altro che insensata e Hegel non nega che ci siano nella realtà anche fango, sporcizia e quant'altro, ma sono solo accidenti senza peso nella realtà e nel pensiero. Quel che per lui è chiaro è che la realtà marcia verso un'unica direzione, perché i posteri sono avvantaggiati dal sapere tramandato dai predecessori e ha sempre detto che lui aveva tratto ben giovamento da Parmenide, Eraclito, Platone e Spinoza. Il primo per la totalità dell'universo, il secondo per il movimento, il terzo per la dialettica e l'ultimo per il panteismo. [continua]
Tale aforisma supremo fa un po' il paio con il "principio antropico", però.


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nino58 ha scritto: martedì 23 luglio 2019, 9:25 Tale aforisma supremo fa un po' il paio con il "principio antropico", però.
Il Principio Antropico e l'emergere della centralità dell'osservatore, per cui a me sembra più collegabile a Kant (a occhio).


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lemond ha scritto: martedì 23 luglio 2019, 9:32
nino58 ha scritto: martedì 23 luglio 2019, 9:25 Tale aforisma supremo fa un po' il paio con il "principio antropico", però.
Il Principio Antropico e l'emergere della centralità dell'osservatore, per cui a me sembra più collegabile a Kant (a occhio).
Giusto.
Lo dicevo in relazione al fatto della centralità dell' umanità più che dell'osservatore.
La razionalità è prerogativa del pensiero riflesso.
Applicabile sia in un universo acefalo che in uno in cui sia presente un "motore iniziale".
E' evidente che il principio antropico ha un certo senso soltanto nel secondo caso.


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nino58 ha scritto: martedì 23 luglio 2019, 9:44 E' evidente che il principio antropico ha un certo senso soltanto nel secondo caso.
In teoria non avrei nulla contro il "motore iniziale", basta intendersi su che cosa sia. Però poi c'è la storia dell'inizio prima del tempo, che credo non abbia senso, ma, ripeto dico a occhio, perché sono un dilettante e filosofia a scuola non c'era nei programmi e nemmeno all'Università, così come fisica!!! :grr:
P.S. per la verità un anno (mi pare) di fisica, insieme a matematica, c'era, ma ...


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lemond ha scritto: martedì 23 luglio 2019, 11:35
nino58 ha scritto: martedì 23 luglio 2019, 9:44 E' evidente che il principio antropico ha un certo senso soltanto nel secondo caso.
In teoria non avrei nulla contro il "motore iniziale", basta intendersi su che cosa sia. Però poi c'è la storia dell'inizio prima del tempo, che credo non abbia senso, ma, ripeto dico a occhio, perché sono un dilettante e filosofia a scuola non c'era nei programmi e nemmeno all'Università, così come fisica!!! :grr:
P.S. per la verità un anno (mi pare) di fisica, insieme a matematica, c'era, ma ...
Sì, c'erano tre anni anche allo scientifico, ma non era astrofisica o fisica delle particelle, era tutta fisica sui vettori e calcolo sui vettori, una palla...


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Re: Filosofia

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nino58 ha scritto: martedì 23 luglio 2019, 11:38 Sì, c'erano tre anni anche allo scientifico, ma non era astrofisica o fisica delle particelle, era tutta fisica sui vettori e calcolo sui vettori, una palla...
Rammento che in quell'anno imparai una cosa: gli opposti si attraggono e viceversa ...


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lemond ha scritto: martedì 23 luglio 2019, 11:45
nino58 ha scritto: martedì 23 luglio 2019, 11:38 Sì, c'erano tre anni anche allo scientifico, ma non era astrofisica o fisica delle particelle, era tutta fisica sui vettori e calcolo sui vettori, una palla...
Rammento che in quell'anno imparai una cosa: gli opposti si attraggono e viceversa ...
Io neppure quello :D


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Piccola storia della Filosofia occidentale XXXV

Da buon storicista, ha scritto "La fenomenologia dello spirito" ovvero la storia della coscienza; dove si rende conto che le diverse vicissitudini storiche (anche negative) erano necessarie per il progresso; e, anzi, è la storia del dolore e della lacerazione che accompagna il dramma dell'autocoscienza sin quando essa non riesce a superarlo, accedendo alla ragione. Hegel, a differenza di Kant, è ottimista convinto e i fenomeni per lui procedono in forma triadica (tesi-antitesi-sintesi), come nell'elettricità: due cariche contrapposte generano energia e così, nel nostro caso: sensazione-percezione-intelletto. Però, attenzione, anche la ragione deve avere sofferenza, perché possa rispecchiare la realtà, ma, a differenza della coscienza infelice, non si contrappone a essa, bensì partecipa alla vicissitudini sapendo che sono le sue stesse. La coscienza è come un individuo che ha paura della sua ombra, la ragione invece, anche se infastidita da qualcosa che la segue, sa di non essere niente di diverso dalla propria ombra. Alla ragione siffatta, Hegel dà il nome di spirito in senso laico e quindi può affermare che la ragione è spirito in quanto ha certezza di essere ogni realtà ed è consapevole di sé come del suo mondo e del mondo come di sé stessa. ;)


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lemond ha scritto: venerdì 26 luglio 2019, 12:26 Piccola storia della Filosofia occidentale XXXV

Da buon storicista, ha scritto "La fenomenologia dello spirito" ovvero la storia della coscienza; dove si rende conto che le diverse vicissitudini storiche (anche negative) erano necessarie per il progresso; e, anzi, è la storia del dolore e della lacerazione che accompagna il dramma dell'autocoscienza sin quando essa non riesce a superarlo, accedendo alla ragione. Hegel, a differenza di Kant, è ottimista convinto e i fenomeni per lui procedono in forma triadica (tesi-antitesi-sintesi), come nell'elettricità: due cariche contrapposte generano energia e così, nel nostro caso: sensazione-percezione-intelletto. Però, attenzione, anche la ragione deve avere sofferenza, perché possa rispecchiare la realtà, ma, a differenza della coscienza infelice, non si contrappone a essa, bensì partecipa alla vicissitudini sapendo che sono le sue stesse. La coscienza è come un individuo che ha paura della sua ombra, la ragione invece, anche se infastidita da qualcosa che la segue, sa di non essere niente di diverso dalla propria ombra. Alla ragione siffatta, Hegel dà il nome di spirito in senso laico e quindi può affermare che la ragione è spirito in quanto ha certezza di essere ogni realtà ed è consapevole di sé come del suo mondo e del mondo come di sé stessa. ;)
Ottima sintesi del pensiero hegeliano. :clap: :clap: :clap:
La cui fenomenologia (tesi-antitesi-sintesi) si sviluppa modificandosi, in Gramsci, in prassi-teoria-prassi.
In cui la seconda prassi è, sostanzialmente, una sintesi. :cincin:


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Re: Filosofia

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nino58 ha scritto: venerdì 26 luglio 2019, 12:33
lemond ha scritto: venerdì 26 luglio 2019, 12:26 Piccola storia della Filosofia occidentale XXXV

Da buon storicista, ha scritto "La fenomenologia dello spirito" ovvero la storia della coscienza; dove si rende conto che le diverse vicissitudini storiche (anche negative) erano necessarie per il progresso; e, anzi, è la storia del dolore e della lacerazione che accompagna il dramma dell'autocoscienza sin quando essa non riesce a superarlo, accedendo alla ragione. Hegel, a differenza di Kant, è ottimista convinto e i fenomeni per lui procedono in forma triadica (tesi-antitesi-sintesi), come nell'elettricità: due cariche contrapposte generano energia e così, nel nostro caso: sensazione-percezione-intelletto. Però, attenzione, anche la ragione deve avere sofferenza, perché possa rispecchiare la realtà, ma, a differenza della coscienza infelice, non si contrappone a essa, bensì partecipa alla vicissitudini sapendo che sono le sue stesse. La coscienza è come un individuo che ha paura della sua ombra, la ragione invece, anche se infastidita da qualcosa che la segue, sa di non essere niente di diverso dalla propria ombra. Alla ragione siffatta, Hegel dà il nome di spirito in senso laico e quindi può affermare che la ragione è spirito in quanto ha certezza di essere ogni realtà ed è consapevole di sé come del suo mondo e del mondo come di sé stessa. ;)
Ottima sintesi del pensiero hegeliano. :clap: :clap: :clap:
La cui fenomenologia (tesi-antitesi-sintesi) si sviluppa modificandosi, in Gramsci, in prassi-teoria-prassi.
In cui la seconda prassi è, sostanzialmente, una sintesi. :cincin:
Non so, ma non credo, che nel libro che ho sottomano, ci sia posto per Gramsci. Per cui se tu volessi ampliare il suo pensiero, penso che faresti cosa buona. ;)


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lemond ha scritto: venerdì 26 luglio 2019, 13:02
nino58 ha scritto: venerdì 26 luglio 2019, 12:33
lemond ha scritto: venerdì 26 luglio 2019, 12:26 Piccola storia della Filosofia occidentale XXXV

Da buon storicista, ha scritto "La fenomenologia dello spirito" ovvero la storia della coscienza; dove si rende conto che le diverse vicissitudini storiche (anche negative) erano necessarie per il progresso; e, anzi, è la storia del dolore e della lacerazione che accompagna il dramma dell'autocoscienza sin quando essa non riesce a superarlo, accedendo alla ragione. Hegel, a differenza di Kant, è ottimista convinto e i fenomeni per lui procedono in forma triadica (tesi-antitesi-sintesi), come nell'elettricità: due cariche contrapposte generano energia e così, nel nostro caso: sensazione-percezione-intelletto. Però, attenzione, anche la ragione deve avere sofferenza, perché possa rispecchiare la realtà, ma, a differenza della coscienza infelice, non si contrappone a essa, bensì partecipa alla vicissitudini sapendo che sono le sue stesse. La coscienza è come un individuo che ha paura della sua ombra, la ragione invece, anche se infastidita da qualcosa che la segue, sa di non essere niente di diverso dalla propria ombra. Alla ragione siffatta, Hegel dà il nome di spirito in senso laico e quindi può affermare che la ragione è spirito in quanto ha certezza di essere ogni realtà ed è consapevole di sé come del suo mondo e del mondo come di sé stessa. ;)
Ottima sintesi del pensiero hegeliano. :clap: :clap: :clap:
La cui fenomenologia (tesi-antitesi-sintesi) si sviluppa modificandosi, in Gramsci, in prassi-teoria-prassi.
In cui la seconda prassi è, sostanzialmente, una sintesi. :cincin:
Non so, ma non credo, che nel libro che ho sottomano, ci sia posto per Gramsci. Per cui se tu volessi ampliare il suo pensiero, penso che faresti cosa buona. ;)
Non sono così colto.
L'ho saputo (diverso tempo fa) e qui l'ho riportato. :)
Su Gramsci ( e tanti altri) : spesso i libri di una specifica materia (nel nostro caso, di filosofia o storia della filosofia) trattano solo autori "specifici", cioè filosofi classificati come filosofi.
Gli scritti di altri che non siano esclusivamente filosofi non vengono catalogati, anche se le cose che scrivono sono pensieri filosofici veri e propri.


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Re: Filosofia

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nino58 ha scritto: venerdì 26 luglio 2019, 13:08 Non sono così colto.
L'ho saputo (diverso tempo fa) e qui l'ho riportato. :)
Nemmeno io, però ... ho tanto tempo. ;)


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lemond ha scritto: venerdì 26 luglio 2019, 13:11
nino58 ha scritto: venerdì 26 luglio 2019, 13:08 Non sono così colto.
L'ho saputo (diverso tempo fa) e qui l'ho riportato. :)
Nemmeno io, però ... ho tanto tempo. ;)
Io non ancora.
Forse da fine 2020. :cincin:


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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale XXXVI

"La vita umana è un oscillare perpetuo fra il dolore e la noia" e questa massima ci spiega abbastanza bene il pensiero di Arthur Schopenhauer che poi continua: se speriamo di provare qualche gioia, dobbiamo ricordarci che ogni piacere non è che il rimedio a qualche insodisfazione!
A.S. nutriva il massimo disprezzo per Hegel e per tutti gli altri filosofi idealisti che, secondo lui specie il primo, stravolge il buon senso e spaventa con l'oscurità del suo gergo. Cercò di mettersi in concorrenza con lui all'università, facendo coincidere gli orari delle loro lezioni, ma dovette prodursi davanti a banchi vuoti e ciò diventò una delle "croci della vita" e cercò di vendicarsi accusando la "filosofia dell'università" di buffoneria e impostura. :x
Già Platone aveva detto che era meglio non esser nati e il greco era uno dei tre punti di riferimento, il secondo era Kant, da cui trasse la teoria della conoscenza, mentre il terzo era Buddha per la morale della rinuncia. Ma più forte dell'amore per lui era l'odio e lo riversava (come già detto) verso colui che esaspera l'ottimismo idealistico, celebrando un presunto lieto fine della storia universale! E siccome questa visione rosea delle cose può allettare i più ingenui, Schopenhauer accusa Hegel di presentare una "filosofastreria istupidente e perniciosa per lo spirito!" (continua)


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Le tre sorelle è il titolo di un dramma teatrale, penultima opera drammatica composta da Anton Cechov nel 1900



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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale XXXVII

Se guardiamo in faccia la realtà ci accorgiamo che la verità è il contrario di quanto sosteneva Leibniz: il nostro è il peggiore dei mondi possibili e l'uomo appartiene alla morte per il semplice fatto di essere nato! Ma il pensiero di A.S. non si fonda su di essa, ma sul dolore, derivante da malattia, persecuzione, miseria, cecità, pazzia. È il dolore il senso della vita, è duro riconoscerlo, ma tant'è e, come già detto la gioia è un prodotto indiretto, relativo alla momentanea liberazione da qualcosa che ci opprime. E infatti mica ci accorgiamo della salute, giovinezza e libertà quando ce l'abbiamo. :) :x :x Certo gli ingenui non se ne rendono conto, ma i grandi sì e, ad es. Dante che naturalmente ha preso la materia per il suo inferno dal mondo reale, ne ha fatto venir fuori un *inferno perfetto*. ;) Quando invece descrive il cielo e le sue gioie si trovò davanti a un'insuperabile difficoltà. In definitiva vale l'adagio dell'antico poeta: "sunt lacrimae rerem" (piangono le cose e non sono gli uomini). L'unico rimedio (se si può chiamare così) per Schopenhauer è vivere senza desideri.

P.S. Chi volesse approfondire il Nostro, può trovare più di cinquanta puntate in questa stessa discussione, a partire da giovedì 29 marzo 2018, Irvin Yalom "La cura Schopenhauer"


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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale XXXVIII

Alla morte di Hegel la sua scuola si divise in "destra" e "sinistra" e fu quest'ultima a raccogliere i pensatori più importanti: David F. Strauss, Feuerbach, Marx.
Per loro la religione è solo un mito e la proiezione dei nostri desideri o se volete una sostanza come l'oppio che non ci fa avvertire nessun dolore (o quasi).
Dei tre fu K. Marx a lasciare la traccia più profonda non per la critica alla religione, ma per la teoria della storia, che sempre si realizza attraverso conflitti di classe. La definizione che dà di classe è piuttosto sbrigativa: sfruttatori/sfruttati. Per realizzare una società migliore il Nostro si rifà al sogno di Platone, secondo cui a governare dovevano essere le teorie esposte dai filosofi, in particolare il comunismo. Ma come avrebbe potuto la classe sfruttata (i proletari, cioè coloro che avevano solo la prole come ricchezza) arrivare alla meta? Solo attraverso una rivoluzione violenta a cui seguisse la *dittatura del proletariato*. Ma dove e come può scoppiare la rivoluzione? La risposta è che arriverà dialetticamente e come conseguenza delle contraddizioni del capitalismo. Marx é convinto dell'esistenza di una legge tendenziale di caduta del saggio di profitto, con la conseguente progressiva concentrazione del capitale in poche mani e questo, a sua volta, forma un binomio indisgiungibile con l' immiserimento crescente degli operai. In simile situazione si genera la massima contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive (il proletariato) e il numero sempre più ristretto di capitalisti e Marx può affermare che “la produzione capitalistica genera essa stessa, con l'inevitabilità di un processo naturale, la propria negazione”. "Conditio sine qua non" alla rivoluzione è quindi che il capitalismo raggiunga il massimo "sviluppo" e la scienza ci dice che scoppierà in Germania.


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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale XXXIX

Della sinistra hegeliana e di Marx non si accorse per niente il più celebre filosofo di fine Ottocento: Friedrich Nietzsche, il che si spiega facilmente, perché a lui dei poveri e degli sfruttati non interessava quasi niente, aveva in mente solo il suo genio e qualche spirito eletto, per es. Schopenhauer.
Egli fu contro l'ordine costituito, la morale corrente, le fedi religiose e confidava che l'uomo potesse evolvere in quella che poi sarà chiamata la teoria del *superuomo*.
Nel libro più famoso egli immagina che Zarathustra scenda dalla montagna per annunciare una nuova era attraverso tutta una serie di rivelazioni, fra cui la più sconvolgente è che: *Dio è morto* In altre parole, non basta definirsi atei, occorre aggiungere che di questa calamità gli uomini più maturi se ne sono già liberati (e per forza di cose "le salmerie seguiranno"). :diavoletto:
Il concetto di Dio rappresenta il contrario dell'energia che anima la vita e il culto ha ottenuto il bel risultato di svuotare il mondo di ogni attrattiva, perché per identificare il credente (credino) si è scelto tutto quanto esiste di debole, di infermo, di mal riuscito etc. In altre parole per chi ama la vita, la morale tradizionale cristiana (umiltà, castità, rinuncia alla felicità, rassegnazione fino al martirio etc.) rappresenta soltanto una mortificazione della stessa! :x
La sua formula è invece *amor fati*: chi accetta il fato è condotto per mano da esso, chi gli si ribella può essere solo spazzato via! Riconoscere chi si è con gioa, senza combattere inutili battaglie e questo è il superuomo che riesce a essere al di là del bene e del male. ;)


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Sottomissione, secondo M. Ferraris



Da questo minuto è imperdibile, per il resto vedete un po' voi


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Piccola storia della Filosofia occidentale XL

Il XX è il secolo della logica e i due eroi sono Beltrand Russel e il suo allievo e oppositore, Ludwig Wittgenstein.
Il primo diventò famoso per aver risolto la contraddizione che riguardava il paradosso del mentitore il quale, se dice che sta mentendo, mette in imbarazzo logico chi voglia stabilire se dice il falso o il vero! Russel scioglie il nodo, vietando a ogni proposizione logica di parlare di sé stessa. ;)
La vita del Nostro fu molto lunga e piena di trasgressioni, ma gioiose: non aveva il risentimento di Schopehauer, né la stravaganza paradossale di Nietzsche e non si macerava sugli enigmi dell'esistenza, ma, come detto, su quelli della logica.
All'interno di questo capitolo, c'è una perla che va sotto il nome di *antinomia di Russel* che, detto per inciso, provocò un'enorme depressione nell'antagonista di allora, l'insigne matematico Gottlob Frege, che dovette sottostare a una delle più desolate confessioni che sia mai stata scritta da uno scienziato! :x
All'origine del "casus belli" sta una domanda che ha sempre imbarazzato i filosofi: che cosa sono i numeri?
Frege aveva risposto che il numero è una collezione (o classe) di oggetti. Russel però si accorse di un fatto strano: se apro la credenza e vedo un certo numero di cucchiai, avrò la classe dei cucchiai, ma questa classe non è, a sua volta un cucchiaio. Invece la classe delle cose che non sono cucchiai è proprio una cosa che non è un cucchiaio. Per cui vi sono due tipi ben diversi di classi: quelle a cui non si addice la loro definizione (ad es. essere cucchiai) e quindi non possono predicare sé stesse e le altre che invece lo possono fare. Chiamiamo normali le classi come quelle dei cucchiai, perché quasi tutte sono così: la classe degli uomini non è un uomo etc. Anomale saranno invece quelle che possono predicare sé stesse, ad es. la classe dei concetti è, a sua volta un concetto. (continua)


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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale XLI

Che cosa accadrà della classe di tutte le classi normali, cioè quelle che non predicano sé stesse? Sarà normale o anomala?
Qui scatta l'antinomia di Russel, perché comunque si risponda ci si contraddice! E lo spiegò con il c.d. paradosso del barbiere.
Se in un villaggio isolato vi e' un solo barbiere, che non porta la barba, e che fa la barba a tutti gli abitanti del villaggio eccetto a quelli che se la fanno da soli, chi fa la barba al barbiere?
a) non può farsi la barba da solo perché la fa solo ai quelli che non se la fanno da soli
b) non può farsi fare la barba da un altro perché lui la fa a tutti quelli che non se la fanno da soli.
Dopo aver enunciato la teoria, Russel sostenne però che non è inevitabile e introdusse la teoria dei tipi, che risolve tutti i paradossi derivanti dall'applicazione di un predicato a sé stesso, fra cui anche quello del mentitore cretese di Epimenide.
Per farla capire possiamo esemplificare: è come se uno dicesse che il corpo umano comprende come sue membra le mani, i piedi, il collo e il corpo umano. È evidente che il corpo umano in quanto totalità non può essere membro di sé stesso. ;)
Russel spese quasi tutta la sua vita su argomenti del genere, che alla quasi totalità della gente può sembrare irrilevante, ma in soccorso si può pensare a un aforisma di Hegel: "Esiste il noto e il conosciuto e compito della filosofia è appunto il rendere conosciuto quello che per la gente comune è soltanto noto!"


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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale XLII

Russel ebbe come allievo Ludwig Wittgenstein, anche se non si possono immaginare due individui più diversi: equilibrato e socievole il primo; nevrotico e misantropo l'altro.
L.W. era nato da una ricca famiglia ebrea austriaca ed acquistò ben presto fama internazionale con il Trattato logico-filosofico, ma le lezioni universitarie erano improntate di una lucida follia, per esempio rimanevo spesso taciturno a lungo in cattedra con la testa fra le mani, talvolta aggrediva verbalmente gli studenti, per cadere subito dopo in crisi depressiva.
Più volte Russel cercò di impedirgli qualche eccesso, ma con scarsi risultati; sarebbe stato un caso da psicanalista, categoria che il Nostro però odiò sempre e combatté con gran vigore.
Wittgenstein non crede che la filosofia possa approdare a qualche invenzione, il suo compito è quello di chiarire i pensieri, ovvero cercare di *disinfettarsi dalle nostre confusioni mentali!* Dopodiché, la filosofia può scomparire. (continua)


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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale XLIII

Il ridimensionamento della filosofia, secondo il Nostro, è a vantaggio della logica. Cercando di riprendere Aristotele, che la considerava basilare, insieme al linguaggio, L.W. utilizza questo principio, ma con la specificazione che quel che il linguaggio apporta alla conoscenza sono delle immagini logiche con cui rivestiamo le nostre percezioni. Ma aver logicizzato il mondo è anche una debolezza, perché comporta la conseguenza che non possiamo uscire dal nostro linguaggio per esprimere quello che esso ha in comune con la realtà.
È un'impotenza tragica molto consona al tenebroso temperamento di Wittgenstein, che si trova, per fare un esempio, come il dito indice che non potrà mai denotare sé stesso! :( E allora "Su ciò di cui non si può parlare , si deve tacere". È una condanna che ricorda quella di Kant sulla metafisica.
Ma dieci anni dopo aver formulato l'enunciato lo ripudiò; ma questa svolta radicale, anziché screditarlo, gli portò fortuna e la nuova teoria che nacque da essa (il neopositivismo logico) ebbe un successo non inferiore.


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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale XLIV

Nel primo Novecento, quando ormai si pensava che il pensiero avesse elaborato ogni possibile teoria, si assiste invece al nascere di due scuole affatto nuove: la psicanalisi e la fenomenologia.
La prima si propone di mettere in soffitta la coscienza, sostituendola con la *psiche*.
Il padre della corrente è Sigmund Freud che scoprì una via del tutto nuova per arrivare alla psiche senza coscienza, ovvero l'interpretazione dei sogni: per lui occorre indagare soprattutto la natura sessuale che il sogno ci indica e sapere che stiamo appagando un nostro desiderio inconscio.
Forse la psicanalisi non sarebbe nata se S.F. non avesse conosciuto uno dei più grandi neurologi dell'epoca: Jean-Martin Charcot. Questi aveva notevoli capacità ipnotiche e con esse si accorse che alcuni malati psichici guarivano prendendo coscienza dei traumi che li aveva fatti ammalare.
Il suggerimento che Freud diffuse fu che le nevrosi vanno curate accedendo alla parte più inesplorata della psiche, l'inconscio. In questa parte oscura si accumulano i ricordi più brutti e traumatici della vita e quando l'individuo non riesce a rimuoverli, ecco che nasce la malattia!
Come abbiamo già detto il sogno ci rappresenta un desiderio e spesso questo è di natura sessuale e perciò l'interpretazione deve cercare i simboli nascosti; essi altro non sono che rappresentazioni di realtà sconvenienti (di solito ci vergognamo della nostra sessualità).
Per i critici Freud esagerava quando arriva a sostenere che anche l'angoscia sarebbe uno dei sintomi caratteristici dell'impulso sessuale e va da sé che questo modo di pensare scandalizzò molti. ;)


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Re: Filosofia

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Mauro Bonazzi e Carlo Sini: I miti fondatori PROMETEO / TECNICA E POTENZA



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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale XLV

Contro l'incoscio e la psicanalisi si elevò il grido di Edmund Husserl che come Freud era ebreo e nato in Moravia: per conoscere te stesso lascia perdere l'incoscio e guarda invece alla coscienza. Per lui non esiste oggetto senza coscienza e questo comporta l'impossibilità di un contenuto inconscio nella psiche, quel che è in quest'ultima devess'ere anche nella coscienza, pur se talvolta tenue e confusa.
In Husserl i fenomeni sono le cose che appaiono, ma non sono (come per Kant) prodotti dal soggetto conoscente, bensì manifestazioni del reale. Per Kant c'è l'apparenza, laddove per l'altro si tratta di *essenza* e appunto questa teoria prende il nome di *Fenomenologia*.
Ma come si fa a poter cogliere le essenze nella loro centralità? La nostra coscienza deve prescindere dalle accidentalità a dai dettagli, se ad es. qualcuno traccia su una lavagna un disegno circolare approssimativo, chi lo vede percepisce al contempo non solo quel tracciato di gesso, ma anche l'essenza geometrica del cerchio. ;)
Ma le essenze rischiano di essere troppe e confuse, per cui il filosofo della fenomenologia deve saper distinguere quelle importanti e mettere fra parentesi le altre. È grazie all'epoché (ovvero sospensione del giudizio su alcuni fenomeni) che possiamo dare un senso al mondo, che naturalmente consiste nella sua essenza. Se ciò che ci circonda sparisse, secondo lui non sparirebbe la coscienza, ma subirebbe solo una modificazione non essenziale. Per questo motivo che voleva criticarlo sosteneva che fosse un solipsista, cioè uno che crede che la psiche sia la sola realtà. In effetti Husserl non aveva mai più riaperto la parentesi con la quale aveva chiuso il mondo. :(


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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale XLVI

Anche la filosofia ha il suo genere "horror" e forse l'esistenzialismo è stato il pensiero che più ha tentato di mettere in crisi l'esistenza umana.
Martin Heidegger ha introdotto nella disciplina gli ingredienti della quotidianità, mostrando come essi siano importanti quanto i concetti astratti. Egli ignora l'amore e l'amicizia e si concentra invece sull'angoscia e la morte. La prima svela il nulla dell'esistenza (e infatti, per il suo emulo Sartre, l'uomo è nulla).
Il lessico in M.H. è radicalmente nuovo, ricco di etimologie e neologismi, il che fece gridare alla frode i detrattori, che, a maggior ragione, lo criticarono per le compromissioni con il nazismo! (Fra l'altro avrebbe anche tradito il maestro Husserl, determinandone la cacciata dall'università, in quanto ebreo).
Per amor di precisione, va detto che l'adesione al partito fu tiepida e di breve durata e in ogni caso i nazisti non lo amavano, perché lo consideravano un nichilista.
Nel 1927 scrisse il suo capolavoro "Essere e tempo" dedicato all'analisi della natura umana e in esso non si legge mai la parola uomo. ;)
Già Parmenide aveva chiamato essere la realtà, suscitando la diffidenza di Aristotele, perché (secondo lui) essere da solo non può significare qualcosa. La gente dice il cielo è azzurro, quella donna è sola, ma nessuno "il cielo è", dunque è arbitrario parlare di essere senza un predicato. (continua)


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Piccola storia della Filosofia occidentale XLVII

Secondo Heidegger l'essere è stato oggetto solo di un indagine superficiale e mai nessuno ha cercato di scoprirne il senso; per fare un esempio se uno dice che un cane è un quadrupede lo indica, ma se aggiunge che è il miglior amico dell'uomo, lo comprende e il massimo di comprensione che si può avere per l'uomo è scoprire il senso dell'essere. Nessuno aveva mai sospettato che l'essenza potesse essere trovata nell'ambiente che lo circonda, vale a dire nel mondo. Secondo lui l'essere dell'uomo è un essere nel mondo e per questo lo chiama *esserci*.
E nell'esserci comporta anche il prendersi cura degli altri (cura, però non in senso morale, ma filosofico). Secondo Ovidio la Cura è una tremenda divinità, che apporta angoscia e inquietudine, ed è proprio quella che ha plasmato l'uomo, anche se non tutti se ne rendono conto. L'uomo se ne accorge di solito se, e soltanto se, pensa all'assurdità di essere nel mondo, ovvero nel nulla che lo circonda. Ciò che ci angoscia in altre parole è il fatto stesso di esistere per ... morire. M.H. precisa che quel che ha detto lui non è la paura della morte, come di un evento, bensì una presenza incombente che accompagna ogni nostro passo. Come dicevano i latini, in realtà noi moriamo ogni giorno.
Però, una volta che l'angoscia ci ha rivelato l'impossibilità di essere altro che il nulla, possiamo togliere alla morte il veleno della sorpresa, ma soprattutto possiamo raggiungere una posizione privilegiata, dalla quale possiamo togliere tutte le illusioni.
Un antico motto latino diceva "ex nihilo nihil fit" (Dal nulla non nasce nulla), ma le vicende dell'esistenzialismo novecentesco smentirono il proverbio. ;) E lo vedremo meglio con Sartre.


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Piccola storia della Filosofia occidentale XLVIII

La carta vincente di Jean-Paul Sartre fu la produzione letteraria: i suoi romanzi raggiunsero tirature eccezionali; essi dipingono i fatti della vita come piatti e vuoti.
Nel suo saggio più importante di filosofia *L'essere e il nulla* cercò di sviluppare Husserl e Heidegger.
Riguardo al secondo, capovolge il tema: non è l'essere che si trova di fronte alla vanità del mondo, bensì è proprio l'uomo a non essere niente, nonostante cerchi di aggrapparsi a ciò che lo circonda.
Con riferimento a Husserl volle accertarsi che la coscienza fosse ciò che assicurava il tedesco e così fece una scoperta terribile: la coscienza è una potenza *nullificante* una specie di buco nero che fagocita le cose del mondo, annientandole. Questa potenza distruttrice è tipica di una delle facoltà della coscienza: l'immaginazione; essa riesce a trasformare la realtà in semplici immagini e quindi l'uomo stesso è solo immagine destinata a finire in archivio! In questo modo la coscienza celebra le nozze dell'uomo col nulla.
Per Sartre il nulla è come un verme all'interno di una mela: in principio coesistono, poi la mela, a poco a poco, non esiste più!
In sintesi , la coscienza continua a essere dominatrice, come in Husserl, ma il risultato che ne consegue è l'opposto.
Sartre pensa che le sue riflessioni, che sembrano paradossali, possono germogliare all'interno di chiunque e nella "Nausea" il protagonista, che si è trasferito in un piccolo centro di provincia, comincia a essere preda della coscienza, che gli fa apparire vuote tutte le realtà circostanti: il museo, la domenica alla messa, le confidenze di una amico etc.
Per capire meglio il concetto si può usare una metafora: se guardo da un buco della serratura, sono un soggetto, ma il guardato è solo un corpo. E da qui forse Woody Allen fece quella distinzione famosa fra il baciante e il baciato (mi pare in Io e Annie) ;)


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Re: Filosofia

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Piccola storia della Filosofia occidentale IL

Ernst Bloch
era contemporaneo di Heidegger e tedesco, ma della Germania Est, dove ebbe una condanna per revisionismo e il divieto di pubblicare. Dopo la costruzione del muro di Berlino se ne andò all'Ovest, per la precisione all'Università di Tubinga. Non abiurò mai la fede marxista, ma la rese più consona al pensiero occidentale.
La sua filosofia prese il nome *Ontologia del non ancora* e criticò le essenze immutabili di Husserl; per es. l'idea di società è l'essenza dei rapporti civili, ma è sbagliato ritenere che essa sia rimasta tale e quale dal mondo greco ai giorni nostri. Inoltre il nichilismo non è la spiegazione della realtà, bensì la rinuncia a qualsiasi interpretazione del reale! Perché dobbiamo darla vinta al nulla, senza tentare qualcosa contro!? Da qui la massima filosofica *Ciò che è non può essere vero*; dobbiamo pensare che la verità odierna è solo parziale e il futuro ci confermerà che non ha senso etichettare l'uomo attraverso il passato, perché non è rimasto uguale a sé stesso nemmeno per un secolo e il ritmo della metamorfosi si accelera continuamente. L'oscurità del dire *io sono* si rivela nel fatto che ci è più facile conoscere quel che non siamo. :)
Bloch volta le spalle al pessimismo degli esistenzialisti e per lui l'utopia è sinonimo di speranza e sottolinea come in tutta la storia sono stati questi impulsi a generare quanto di meglio è riuscito a realizzare il genere umano. :) [Fine]


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Dialoghi di Platone - Eutifrone

Il deuteragonista (secondo personaggio, che dà il nome al dialogo) è una figura di "sacerdote" di ben modesta statura morale. Qualcuno pensa che possa essere la stessa persona di cui si fa menzione nel " Cratilo " . Qui fa il processo al padre non per malvagità, né per ambizione, ma per cortezza di mente e piccolezza d'animo . Nel suo fanatismo intollerante e nella sua sicurezza farisaica, non sa vedere la realtà nelle sue giuste proporzioni. In sostanza è convinto di dover agire contro il padre per non " contaminarsi " ; ma oltre che vittima di un concetto di contaminazione estremamente ambiguo, è in errore in molti sensi. Ciò che Platone vuol suggerire con questo personaggio è che Eutifrone, sacerdote della religione ufficiale, che professa con tanta sicurezza di possedere l'esatta conoscenza del santo e dell'empio, non riesce, nella discussione con Socrate, se non a contraddirsi e a confondersi, mostrando di avere conoscenze tutt'altro che chiare (crede di fare cose sante accusando il padre, mentre cade nell'empietà). Pertanto la religione ufficiale che Eutifrone rappresenta non ha affatto un adeguato concetto di santo. Il corretto concetto può essere invece additato a Socrate, che ha superato quella fallace credenza sugli dei, con una ben più alta visione della divinità; proprio quella concezione che voleva insegnare agli Ateniesi e per cui sarà condannato.
La scena del dialogo è il portico del tribunale che si occupava dei processi riguardanti le questioni connesse con questioni religiose, davanti al quale Socrate si trova per via della famosa accusa mossagli dagli Ateniesi ( vedi " L' Apologia " ). L'epoca in cui il dialogo è immaginato è il 399 a.C. , anno del processo di Socrate. L'epoca di composizione rientra nell'arco di tempo della giovinezza di Platone, che precede la fondazione dell' Accademia.
Il ripetuto richiamo alla dottrina delle idee secondo una precisa e innegabile dimensione ontologica e l'impostazione logico-metodologica assai ben tracciata e sviluppata, porterebbero però a credere che l'Eutifrone non sia stato uno dei primissimi scritti.
Socrate spiega ad Eutifrone di essere stato accusato di empietà, di corrompere i giovani e di molte altre cose. Eutifrone, dal canto suo, tira in ballo la causa in corso con suo padre, che egli ha accusato dell' omicidio di un suo dipendente con cui coltivava terreni a Nasso. Eutifrone, però, spiega a Socrate, che gli aveva chiesto se la vittima fosse suo parente, che questo non è importante. Eutifrone aggiunge che tutti i suoi parenti sono contro di lui perché sostengono che la vittima fosse già un assassino, ma che cosa c'entra questo , chiede Eutifrone ? Essi non sanno quale sia la legge divina circa il santo e l'empio. Ma che cosa è il santo e che cosa l'empio, chiede Socrate, sfruttando la solita " ironia socratica " e dicendo di non saperlo assolutamente, a differenza del suo interlocutore . Santo è, spiega Eutifrone, ciò che lui sta facendo al proprio padre: l'intentare un'accusa contro chi commette ingiustizia . Eutifrone dice di poter addurre una dimostrazione inconfutabile di ciò che dice: Zeus, il padre degli dei, è da tutti riconosciuto come il più giusto e Zeus non aveva forse incatenato suo padre, Crono, che aveva ucciso mangiandoseli i figli della madre? Socrate chiede a Eutifrone se lui crede a queste dicerie sugli dei (come per esempio che combattano ) e lui dice di sì . Socrate cambia metodo perché capisce che il suo " avversario " non è un'aquila e così gli spiega che la sua risposta alla domanda " Che cosa è il santo ? " è stata troppo generica ; si è infatti limitato a citare un caso particolare senza far conoscere quella forma per cui tutte le cose sono sante. Allora Eutifrone si cimenta nel dare una seconda definizione: santo è ciò che è caro agli dei, mentre empio ciò che non lo è . Ma il santo è l'opposto dell'empio, chiede Socrate? Certo, risponde Eutifrone. Socrate critica prontamente la seconda definizione data dicendo che gli dei ( sebbene lui non creda a queste cose ) sono spesso in guerra tra loro, presi da dispute e da contese, dunque non sono d'accordo su ciò che piace loro; alcuni diranno che una cosa è bella, ad altri non piacerà, dunque le stesse cose saranno sante ed empi. Per questa ragione, dice Socrate, l'azione di Eutifrone verso suo padre potrebbe essere santa, ma anche empia; magari piace a Zeus , ma é sgradita a Poseidone ... Socrate prova a correggere la definizione: santo è ciò che piace a tutti gli dei senza eccezione, ma poi critica la sua stessa definizione: una cosa non è santa, perché amata degli dei, ma è amata dagli dei perché è santa. Tuttavia non è saltata fuori l'essenza del santo: dire che è ciò che piace agli dei, è solo predicare un suo attributo! Socrate vorrebbe far arrivare Eutifrone all'idea di santo, ma egli si ostina a non capire, con un atteggiamento simile a quello di Ippia nell' " Ippia maggiore " : Socrate dice che le definizioni di Eutifrone assomigliano alle sculture di Dedalo, che si diceva che mettessero le gambe e fuggissero. Socrate dice che "santo è una parte di giusto " , ma quale parte del giusto è il santo ? Servire gli dei è una cosa santa, far loro cose gradite, mentre fare del male agli dei è empio . Santo è capacità di chiedere e di donare agli dei, dice Socrate, ma se così fosse ciò si ridurrebbe ad un'arte di commercio fra uomini e dei, privo di valori spirituali. E poi con questa definizione si ritornerebbe a quella secondo la quale "santo è ciò che piace agli dei ", l'uomo infatti donerebbe agli dei ciò che piace loro . Ma ciò che piace agli dei è ben diverso dal santo. Il dialogo si conclude senza che i due protagonisti siano giunti ad una definizione accettabile , senza essere cioè arrivati all'idea , o al santo in sé.


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Dialoghi di Platone - Apologia di Socrate

Si compone di tre diversi discorsi socratici: la vera e propria difesa (apologia), la controproposta avanzata per mitigare la pena (antitimesis) e il commiato di Socrate rivolto a tutti i concittadini ateniesi, amici e nemici, e un’esortazione a continuare a filosofare nonostante tutto.
Socrate esordisce distinguendo tra retorica e franchezza, opponendole come la menzogna alla verità. La sua difesa si baserà solamente sulla propria sincerità nel riportare i fatti. Per questo motivo, Socrate prende le mosse ricordando le calunnie di cui è stato bersaglio negli anni, che fanno da sfondo alla denuncia formale presentata da Meleto.
Allora come ora, afferma, viene accusato di diffondere speculazioni sulla natura che offendono la religiosità tradizionale. Socrate prende anche le distanze dall’accusa di essere un retore sofista, capace di rovesciare ogni ragionamento dalla sua parte, ricordando alla giuria di non aver mai dato lezioni dietro compenso e di non essersi mai professato sapiente.
Socrate ricostruisce allora l’origine di queste calunnie, riportandole a un’interpretazione equivoca della sentenza dell’Oracolo di Delfi, che lo aveva indicato come il più sapiente fra gli uomini. Il vero senso di quella sentenza oracolare è un altro: Socrate non è l’uomo più sapiente perché sa tutto, ma perché è l’unico a sapere di non sapere, ovvero a non fingere di sapere ciò che in realtà non sa.
Tuttavia, la dimostrazione di questo suo non sapere, attraverso la quotidiana confutazione dei suoi concittadini cosiddetti “sapienti”, gli ha attirato l’inimicizia di molti uomini influenti, che adesso si vendicano attraverso Meleto.
L’accusa di corrompere i giovani si mostra debole poiché non è chiaro nemmeno all’accusatore chi avrebbe le competenze per educare i giovani e Meleto stesso è costretto a riconoscere che sarebbe piuttosto strano che solo Socrate tra tutti i cittadini di Atene sia un corruttore e non invece un educatore.
L’accusa di aver introdotto nuove divinità si rivela invece contraddittoria, poiché Meleto, facendo riferimento al daimon socratico, allo stesso tempo afferma e nega che Socrate creda in entità divine, riconoscendogli dunque, almeno in parte, una propria forma di pietà religiosa.
Socrate difende la propria religiosità attribuendo alla propria missione critica di confutazione del falso sapere un valore divino. Confutare chi si crede sapiente è una missione affidatagli dal dio. La cura di sé, della propria anima, e la ricerca del bene costituiscono per Socrate il compito più alto per l’essere umano e il suo dono alla città di Atene.
Socrate mette in luce, infatti, come la sua attività critica e confutatoria debba essere interpretata come uno stimolo e un beneficio per la città.
Chiude il suo primo discorso, la sua difesa, rinunciando a fare leva sulla compassione dei giurati attraverso la supplica e la richiesta di indulgenza. Socrate, infatti, sa di essere innocente, vittima dell’invidia e dell’inimicizia di suoi concittadini più potenti e influenti, e non intende cedere di un passo, difendendo la propria dignità e mantenendosi orgogliosamente fedele alla sua etica della ricerca della verità.
Dopo il verdetto, Socrate afferma orgogliosamente di non meritare una punizione, bensì una ricompensa per i benefici resi alla città con la sua pratica dialogica volta a risvegliare la coscienza dei concittadini.
Dovendo necessariamente contro proporre una pena, dopo aver escluso l’esilio e la carcerazione che gli toglierebbero la libertà di proseguire la propria missione critica, Socrate si dichiara disponibile a pagare una multa, eventualmente facendo ricorso all’aiuto economico dei suoi amici e discepoli, tra cui figura Platone.
Rivolgendosi a coloro che lo hanno condannato, Socrate rimarca con ostinazione la scelta fatta di appellarsi alla giustizia senza fare leva sulla compassione dei giurati. Inoltre, preannuncia alla città che la sua morte non avrebbe messo fine all’opera, poiché i discepoli avrebbero proseguito l'impresa critica negli anni a venire e aggiunge che la condanna a morte può essere vista non come una disgrazia, bensì come il segno di un destino superiore. Il suo daimon, la voce interiore che lo trattiene dal fare o dal dire qualcosa, durante il processo non si è palesato, a riprova del fatto che nulla è accaduto invano. L’ultimo insegnamento pubblico di Socrate riguarda l’inconoscibilità della morte, che forse non è un male per l’uomo, bensì una meta migliore, o comunque un al di là della vita.


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Dialoghi di Platone - Critone

Il Critone appartiene all'ambito dei dialoghi platonici giovanili. E' ambientato ad Atene nel 399 a.C, qualche tempo dopo la celebrazione del processo a Socrate conclusosi con la sua condanna, durante il mese detto Targelione (maggio-giugno). In questo mese Atene celebrava i Delia minori, festività dedicate ad Apollo all'inizio delle quali un'ambasceria (theoria) veniva spedita a Delo, l'isola natale del dio, su una nave sacra. Durante il periodo di assenza della nave non si potevano eseguire condanne a morte. Socrate attende il ritorno della nave in prigione, perché anche la sua esecuzione è stata sospesa.
In esso si racconta che molti discepoli, con alla testa Critone, suo coetaneo e grande amico, avevano progettato e studiato il modo di farlo fuggire dal carcere, per sottrarlo alla pena di morte, e gli presentano tale progetto. Socrate lo respinge in modo categorico, e spiega le ragioni del suo rifiuto.
Due sono le grandi idee di fondo espresse nell’opera.
In primo luogo, si dice, rovesciando una regola allora ritenuta fondamentale, di difendersi dalle offese ricevute, rispondendo nello stesso modo. Socrate sostiene invece l’idea che all’ingiustizia non si deve rispondere con ingiustizia, in quanto non si deve fare il male a nessuno, neppure in risposta a un male ricevuto, e quindi non si devono mai commettere in alcun modo azioni ingiuste.
E la sua fuga dal carcere sarebbe stata una ingiustizia contro lo Stato. Socrate sostiene inoltre la grande tesi secondo la quale il vero “vincere” consiste non nell’imporre con violenza ciò che si vorrebbe, ma nel “persuadere” gli altri.
Il vero “vincere” sta nel “con-vincere”. (ovvero vincere insieme). Si tratta della prima teorizzazione della rivoluzione della non-violenza.
Martin Luther King citava spesso il Critone per questa idea in esso contenuta, che è una delle più grani idee espresse dalla filosofia sulla base della pura ragione.


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Dialoghi di Platone - Fedone

Il Fedone è un dialogo giovanile di Platone, in cui si affronta la ricerca della vera causa e abbiamo così la dottrina delle idee e l'anamnesis, la reminiscenza.
Il dialogo è ambientato nel periodo dopo la condanna e prima della sua morte, Socrate parla con Fedone e altri amici riguardo della preesistenza dell'anima.

Fedone, uno dei più giovani amici di Socrate, è di passaggio a Fliunte pochi mesi dopo la morte del maestro. Trovandosi tra persone che avevano conosciuto Socrate ed altri personaggi interessati a questioni filosofiche, Fedone si incarica innanzitutto di offrire un racconto del processo, della carcerazione e della morte di Socrate. Fedone rammenta che, andato in carcere di buon ora, aveva trovato il maestro libero dai ceppi ed in compagnia della moglie, Xantippe, insieme al più giovane tra i suoi figli, attorniato da diversi amici. Dopo la partenza della moglie e del figlioletto, Socrate, che era seduto sul letto, si stropicciò una gamba indolenzita, traendone piacere. E, subito, trasse spunto da questa sensazione, per avviare un ragionamento: " che strana cosa, amici, par che sia quello che che la gente chiama piacere, e che meraviglioso rapporto per natura con quello che sembra il suo contrario, il dolore! E pensare che entrambi insieme non vogliono mai trovarsi nell'uomo; ma quando qualcuno insegua uno, e lo prenda, costui si trova in certo modo costretto a prendere sempre anche l'altro, quasi che sebbene siano due, pure si trovino legati allo stesso capo." Se Esopo, il grande scrittore di favole, ne avesse avuto sentore, certamente avrebbe composto una nuova. Al che Cebete, uno dei presenti, si rammentò che il poeta Eueno gli aveva chiesto con quale intento Socrate avesse cominciato a scrivere versi e comporre musica sulle favole d'Esopo e in onore al dio Apollo. " E tu digli la verità, Cebete - rispose Socrate - che li ho fatti non certo per competere con lui e con i suoi poemi - sapendo bene che non era facile - ma solo per rendermi conto del del significato di taluni miei sogni, e mettere in pace la mia coscienza, se mai fosse questa appunto la musica a cui spesso questi sogni m'ordinavano di attendere. Ed ecco quali erano. Spesso nella mia vita passata m'era apparso il medesimo sogno, ora in una forma, ora in un'altra; ma per ripetermi sempre la stessa cosa: « Socrate - mi diceva - fa e coltiva musica.» Ed io allora quello che facevo, questo precisamente credevo: ch'esso mi esortasse e m'incitasse a fare, come si suole in quelli che gareggiano nella corsa; e così il sogno m'incitasse a fare ciò che già facevo: a coltivare musica, convinto, com'ero, che la filosofia fosse la più alta musica ed io non coltivassi che musica. Ora, però, dopo il giudizio, poiché la festa del dio ritardava la mia morte, mi parve che, se dunque il sogno insisteva ancora sull'impormi di fare questa specie popolare di musica, io non dovessi disobbedirgli, ma farla, e fosse più sicuro per me di non andarmene da questo mondo prima d'aver messo a posto la mia coscienza col comporre dei versi, in obbedienza al sogno." A questo punto Socrate se ne uscì con qualcosa di molto strano e sconcertante, ovvero di mandare a dire a Eueno che non mancasse di seguirlo al più presto nell'altro mondo. Lo stranezza colpì non poco Simmia, un altro dei presenti, il quale si disse convinto che Eueno non aveva alcun desiderio di morire. Al che Socrate chiese se Eueno fosse da considerarsi filosofo. Quando Simmia rispose affermativamente, egli dichiarò che non solo Eueno, ma tutti i filosofi non avrebbero accolto male il suo consiglio, giacché il vero filosofo desidera di morire, quantunque nessuno abbia il diritto di suicidarsi. Al che Cebete osservò: - ma se la morte è un bene, perché mai uno non dovrebbe suicidarsi? Socrate ammise che a prima vista il divieto di procurarsi la morte pare assurdo; eppure non è irragionevole. "Quella massima che a questo riguardo si ode in certi misteri: che noi uomini siamo qui come in una prigione, e non ci sia perciò lecito di liberarcene da noi stessi e tanto meno scapparcene, è qualcosa di troppo alto ed insieme non chiaro. Ma, a buon conto, ciò che a me almeno, mi pare ben detto, Cebete, è questo: che sono dei quelli che hanno cura di noi, e noi, gli uomini, siamo una delle cose di proprietà degli dei. O a te non pare?" "A me sì" - rispose Cebete. "Orbene - riprese Socrate - anche tu, se qualcuno dei tuoi servi s'uccidesse, senza che tu gli avessi dato segno di volere che morisse, non ti adireresti con lui e non lo puniresti, se ne avessi il modo?" Cebete ne convenne. Ma questo consenso evidenziava che c'era una contraddizione nel comportamento di Socrate, ed anche nel ragionamento. Se siamo proprietà degli dei, perché mai un filosofo dovrebbe desiderare di morire, sottraendosi ai migliori padroni che si possano trovare? Simmia aggiunse che le parole di Cebete suonavano come un rimprovero allo stesso Socrate. A questo punto il maestro dovette rispondere. Affermò di credere che non tutto finisse con la vita, che anche per i morti ci fosse qualcosa, e di meglio per i buoni che per i cattivi. Aveva la certezza di trovarsi nell'al di là in presenza di divinità non meno buone e nutriva la speranza di incontrare uomini eccellenti. Simmia lo invitò a spiegare le ragioni della sua fiducia. Ma prima, Socrate disse di voler ascoltare quello che aveva da dire Critone. Ed è qualcosa che rende ancora più drammatico il dialogo. "E che altro, Socrate - fece Critone - se non che quest'uomo incaricato di darti il farmaco (cioè la cicuta) insiste da un pezzo perché io ti raccomandi di parlare il meno possibile? Costui dice che chi parla troppo, si riscalda, e questo non va bene; chi fa così sarà poi costretto a prendere una doppia o tripla dose." "E tu lascialo dire - rispose Socrate - ... ma a voi, miei giudici, desidero subito rendere conto delle ragioni per le quali ritengo credibile che un uomo, il quale abbia realmente speso la vita intera nello studio della filosofia, debba sentirsi di buon animo dinnanzi alla morte, ed avere fiducia di trovare lì, dopo che sia finito, i maggiori beni. E che sia così, come lo dico, Simmia e Cebete, proverò ad esporlo." "Tutti quelli che sul serio attendono alla filosofia - proseguì Socrate - corrono il rischio che agli altri sfugga come essi non tendano ad altro se non a morire ed ad essere morti. Se dunque è così, sarebbe davvero assurdo che uno in tutta la vita non pensasse se non a questo, e poi, proprio quando giunga il momento, s'affliggesse di ciò a cui aveva pensato e s'era preparato da tanto tempo." Simmia disse ridente: "Per Zeus, Socrate, m'hai fatto ridere senza che ne avessi alcuna voglia. E credo che a sentirti parlare così dei filosofi la gente troverebbe che si ha ben ragione dire - e ti farebbero coro i miei compaesani, e con che gusto! Che realmente quelli che fanno professione di filosofia sono come persone che aspettano di morire; e del resto essa, quanto a sé, ha già mostrato di non ignorare che i filosofi sono degni d'una morte siffatta. "Che cos'è la morte se non la separazione dell'anima dal corpo? - proseguì Socrate. Il filosofo disprezza i piaceri del corpo e sa che i sensi sono fallaci. Sa che non deve e non può fidarsi se non della sola anima, quando si proponga di conoscere ed indagare l'essere. Desidera la morte perché spera che soltanto allora la sua anima, purificata e sciolta da ogni contatto materiale potrà godere della piena conoscenza del vero, che era stata lo scopo di tutta la sua vita. Chi non è sorretto da tale speranza, non è filosofo, ma un semplice amante del corpo. Qui abbiamo l'obiezione di Cebete. Il ragionamento sarebbe giusto a patto che si potesse dimostrare che l'anima sopravvive al corpo, conservando potere ed intelligenza. Ma questo è proprio ciò di cui tanti dubitano e che necessita di dimostrazione. Socrate risponde partendo da lontano, in particolare dagli insegnamenti di Pitagora. L'antica credenza nella metempsicosi, ovvero la trasmigrazione delle anime, presuppone l'esistenza precedente dell'anima nella dimensione ultraterrena. Il principio di questa credenza è universalmente osservabile in natura, dove ogni contrario si genera dal suo contrario: vita e morte sono contrari; il trapasso dalla prima alla seconda è evidente; ora, se la non vuole essere manchevole da un lato, bisogna anche ammettere il ritorno da morte a vita, per quanto sfugga ai nostri sensi. E non può mancare, perché altrimenti la vita finirebbe per estinguersi del tutto. Se dunque le anime, dopo la morte, si rigenerano in nuovi esseri, bisogna ammettere che esse continuano ad esistere in qualche luogo. Cebete suggerì allora che la preesistenza dell'anima risultava anche dalla dottrina cara a Socrate, ovvero che la vera scienza non fosse altro che reminiscenza. Ma Simmia dichiarò di non rammentarsene, e Cebete fu stimolato a darne un riassunto. Poi Socrate la espose. Muovendo dalla natura della memoria, e ricavandone la conseguenza che, se dalla osservazione degli oggetti sensibili noi possiamo sollevarci alla cognizione delle idee, è chiaro che queste idee dobbiamo averle conosciute tutte prima di nascere. Secondo Socrate, dunque, la medesima necessità logica legava la preesistenza delle idee e quella delle anime. Ma, Simmia e Cebete avanzarono un'obiezione: pur concedendo la preesistenza dell'anima, non abbiamo alcuna prova che essa non si dissolva con la morte. Cebete disse che c'era in loro un bambino che aveva tuttora paura della morte. Socrate risponde che solo ciò che è composto si può dissolvere, e l'anima è certamente una sostanza semplice che rimane sempre identica a se stessa. Solo il composto può divenire. L'anima è come le idee, specie d'essere incorruttibile. Si può conoscere solo con l'intelletto e non con i sensi. Come tutti gli immutabili non appartiene alla sfera del visibile e del tangibile ma all'invisibile e all'intangibile. E quanto più si rifletta sul fatto che l'anima è fatta per comandare ed il corpo per servire, non si può non credere alla sua natura eterna in quanto partecipa del divino. Richiamandosi ancora alla dottrina pitagorica della metempsicosi, Socrate accenna al destino dell'anima. Quelle che avranno vissuto in temperanza e coltivato le
virtù civili potrebbero reincarnarsi a livelli dell'essere più vicini al divino, quelle possedute dai desideri carnali non potrebbero che rinascere nei corpi di animali selvaggi e feroci. A queste affermazioni segue il silenzio. Simmia e Cebete si scambiano commenti a bassa voce. Indovinando che erano ancora in dubbio, Socrate li invita a vincere qualsiasi scrupolo. Così Simmia si decide: non potendo avere il conforto di una divina parola capace di portare la certezza definitiva, bisogna accontentarsi di un ragionamento umano. Osserva allora che anche l'armonia prodotta da una lira può definirsi qualcosa d'incorporeo, mentre la lira che la produce ha statuto fisico, caduco e visibile. L'armonia non sopravvive al logorio dello strumento. Pertanto, anche l'anima potrebbe essere il risultato di una miscela degli elementi corporei (dottrine in qualche modo riconducibili a Democrito e ad Anassagora) e cessare di esistere con il suo spegnimento. Cebete, dal canto suo, avanza un'obiezione ancora più profonda e radicale: nulla vieta di credere che l'anima preesista e sopravviva, ma, ancora nulla vieta di credere che, dopo molteplici reincarnazioni, l'anima finisca con l'estinguersi. Evidentemente non crede all'eternità dell'essere. Molti dei presenti sono turbati da queste osservazioni. Ma non Socrate. Fedone ricorda, innanzitutto, che Socrate ammonì a guardarsi dal perdere la fiducia nei ragionamenti, dopo aver perso quella negli uomini. Perché si diventa misantropi? Perché si ripone la propria fede nei primi che si incontrano, e quando ci si avvede che costoro sono tutt'altro da come li abbiamo immaginati, si finisce per credere che tutto il genere umano è cattivo. La stessa cosa avviene per i ragionamenti. Chi se ne serve con leggerezza, finisce col rigettarli tutti. In realtà, come nel caso del misantropo, anche il misologo generalizza troppo velocemente. Andando al cuore del problema, Socrate chiede a Simmia e Cebete, se rigettino tutti i ragionamenti o solo alcuni. Avuta conferma che entrambi continuano ad accettare la dottrina della reminiscenza, Socrate dice a Simmia che essa non s'accorda per nulla con la considerazione dell'anima come armonia. Se essa fosse armonia, sarebbe un composto di elementi corporei, e non una realtà spirituale. Simmia riconosce l'errore. Ma Socrate non è soddisfatto. Se l'anima - continua - fosse armonia, non potrebbe avere natura diversa dagli elementi che la compongono. Non potrebbe guidarli, ma seguirli. E poi, visto che è innegabile che esistano anime viziose, mentre altre sono virtuose, e considerato che anche la virtù andrebbe considerata come accordo, ed il vizio come disaccordo, avremmo che chi pensa che l'anima sia armonia, dovrebbe ammettere che l'anima sia un'armonia che accoglie in se un'altra armonia, e dovremmo anche ammettere che l'anima viziosa sia un'armonia disarmonica, il che è assurdo. Tornando al concetto iniziale, Socrate conclude che l'anima come armonia non potrebbe contrastare i desideri del corpo, perché così si troverebbe in disarmonia con esso. L'esperienza di ogni giorno, pertanto, smentisce questa dottrina.
L'obiezione di Cebete è più grave. Per fare i conti con essa, Socrate la ricapitola, poi, per far vedere come fosse giunto alle sue convinzioni, riassume la storia del suo sviluppo intellettuale e spirituale. Da giovane fu ammiratore della filosofia della natura e come gli ionici confidò di trovare in essa la spiegazione di tutti i fenomeni. Ma, presto vennero anche i dubbi. Dopo la lettura del libro di Anassagora che poneva il Nous, cioè la mente, come sovrano dell'universo, egli ritrovò alcune speranze. Gli sembrò ovvio, insomma, che se la mente divina ordinava tutto nel miglior modo possibile, tutte le cose avrebbero dovuto essere disposte per il meglio. Però Anassagora, deluse Socrate perché, invece di riportare tutto alla mente, cercava di spiegare le cause dei fenomeni ricorrendo a principi meccanici e materiali, gli stessi, grosso modo, dei filosofi ionici. Socrate decise così di battere un sentiero del tutto nuovo. Non guardare più le cose in modo immediato, nel loro aspetto sensibile, ma ad esse nel modo della vera realtà, quella sovrasensibile, nella loro ragione d'essere, quindi nella loro idea originaria. Così facendo, pervenne ad alcune acquisizioni: una cosa è bella perché partecipa all'idea del bello. Un'altra è grande perché partecipa all'idea del grande, e così via. Ma, così - proseguì Socrate - può sembrare che in un medesimo oggetto coesistano idee contrarie. Un uomo può dirsi sia grande che piccolo, in rapporto dipendente dalla cosa con la quale lo si confronta. Trattasi, insomma di giudizi relativi, non assoluti. Questo significa che noi possiamo trovare tracce delle idee nella realtà, ma sarà assai difficile poter trovare traccia dell'imperfezione della realtà nelle idee. L'idea - dice Socrate - non può accogliere in sé il suo contrario. La grandezza non accoglie la piccolezza, e mai l'accoglierà. «Al che uno dei presenti - non ricordo bene quale (disse): " Oh! In nome degli dei, nei nostri discorsi precedenti non s'era ammesso proprio il contrario di ciò che sento ora: che cioè dal più piccolo si genera il più grande, e dal più grande il più piccolo, e che, insomma, i contrari si generano dai contrari? Ed ora mi si dice, mi pare, che questo non può mai avvenire." Socrate, che aveva sporto un po' il busto per sentire (rispose): " Bravo, hai fatto bene a ricordarlo. Però non rifletti sulla differenza tra ciò che stiamo dicendo ora, e quel che si diceva prima. Allora si diceva che da cosa contraria si genera cosa contraria; ora, invece, si dice che il contrario in sé non può mai divenire contrario a sé stesso, né quello che è in noi, né quello che è in natura. Allora noi parlavamo delle cose che hanno in sé i contrari, e le indicavamo col nome di questi; ora (parliamo) di questi in sé..."» Così, non solo il caldo non può accogliere il freddo, né il dispari il pari; ma neppure il fuoco, di cui il caldo è predicato essenziale, potrà mai accogliere il freddo, né il tre che è dispari, diventare pari, rimanendo tre. Da qui, il dialogo si avvia alla conclusione. Che cosa rende un corpo vivo? Invece di rispondere la vita, rispondo: l'anima. Poiché il predicato essenziale dell'anima è l'essere viva, essa non può accogliere in sé il suo contrario, che è la morte. Dunque l'anima è immortale, pertanto indistruttibile. La conclusione è accettata da Cebete, ma non da Simmia, che avanza qualche riserva: "In verità neppure io - disse Simmia - so come confutare le ragioni addotte. Tuttavia, il problema di cui ci stiamo occupando è così arduo, e la nostra natura mi ispira così poca fiducia, che io mi sento di diffidare ancora delle cose dette." "Non solo - commenta Socrate - è giusto quel che hai detto, ma anche le ipotesi da cui siamo partiti, per sicure che possano sembrare, meritano di essere meglio esaminate. Allorché le avrete analizzate a fondo, credo che terrete dietro al ragionamento quanto più è possibile ad un uomo, e se esso vi parrà chiaro, non cercherete più in là."
Nel finale, Socrate, su sollecitazione di Simmia, espone come potrebbero stare le cose nell'al di là. Nel racconto paiono fondersi persuasioni personali di Socrate e comuni credenze derivanti da Omero e dalla mitologia greca. Da questo racconto si comprende come molte delle credenze comuni alle religioni, compresa quella cristiana, derivino da questa ripresa del pitagorismo. Socrate disegna un purgatorio, un paradiso ed un inferno. I più puri vanno in questo paradiso, e i filosofi veri avranno persino dimore più belle e soavi. Tuttavia, conclude Socrate, nessun uomo di senno potrebbe giurare che le cose stiano davvero così. Epperò è meglio incantare sé medesimi con queste convinzioni.


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Dialoghi di Platone - Cratilo

Il vero e il falso è un tema molto astratto, e legato alla possibilità di ragionare, che Platone affronta in età avanzata (e anche in gioventù) ed in diversi dialoghi, in parallelo con l'essere ed il non essere: si torna a Parmenide. Per il filosofo di Elea dire il falso vuol dire ammettere il non essere, le cose come non sono (il che è impossibile), perché si dice e si pensa solo ciò che è, ciò che esiste. Questo spiega come un dialogo tutto incentrato sulla filosofia eleatica si leghi al sofismo: entrambe mirano ad affermare che l'errore sia impossibile,che non ci sia la distinzione tra vero e falso. Sono posizioni differenti che portano alle stesse conclusioni, Platone, invece, cerca di contestare la possibilità di non errare: se non esiste la possibilità di sbagliare tutti i discorsi saranno o veri o falsi; se tutto è vero o falso la via di mezzo perde significato, mentre è proprio questo che ancora una volta Platone sostiene: se non si ammette l'errore non si può ammettere la verità, che è ciò che non è sbagliato.
Il "Cratilo" prende il nome da un seguace di Eraclito, che però aveva radicalizzato le posizioni del maestro e si era molto soffermato sul "panta rei" (tutto scorre); a suo avviso è impossibile dare i nomi alle cose perché cambiano di continuo: noi chiamiamo Kephissós un fiume ma non è corretto, non esiste qualcosa che si chiami Kephissós perché cambia in continuo (è un esempio evidente perché le acque si rinnovano in continuazione); si fissa artificialmente una cosa che non è fissabile perché in continua mutazione. Cratilo con il "panta rei" arriva a dimostrazioni sofistiche: è impossibile conoscere qualcosa che cambia sempre. Quindi in teoria, dal momento che non si possono attribuire nomi, bisognerebbe solo indicare le cose. Secondo alcuni studiosi Platone stesso sarebbe stato allievo di Cratilo, il che può sembrare strano se consideriamo la dottrina delle idee, in cui viene ammesso un essere fisso, stabile e permanente. Pensandoci bene, però, non è poi così strano: Platone deve aver constatato che nel mondo sensibile non c'è nulla di stabile ed è ricorso alle idee.
Platone nel "Cratilo" effettua un'ampia discussione sulla lingua. Al tempo dei sofisti vi erano state interessanti considerazioni legate al binomio "nomos"-"fusis" (convenzione-natura). Alcuni sofisti erano del parere che si attribuiscano i nomi in maniera spontanea, secondo natura ("katà fusin"),come se la natura stessa ci suggerisse la nomenclatura di cui servirsi nei suoi confronti. Altri la pensavano in modo opposto: gli uomini attribuiscono i nomi in maniera assolutamente artificiale, secondo convenzione ("katà nomon").
Platone sostenne che attribuiamo i nomi un po' "katà fusin" e un po' "katà nomon".
Nella tradizione ebraico-cristiana vi è il mito della torre di Babele; la lingua di Adamo (l'ebraico) sarebbe stata naturale ed i nomi corrispondevano esattamente all'essenza delle cose. Nella torre di Babele i linguaggi successivi sarebbero stati convenzionali e non vi era più piena corrispondenza tra i nomi e le cose. Platone è dunque del parere che la soluzione sia intermedia e noi moderni concordiamo con lui: vi è una mescolanza dei fenomeni. Esiste sì una derivazione naturale dei nomi, sono le cose stesse che suggeriscono i nomi da usare, ma le lingue parlate sono molteplici e una componente di arbitrarietà ci deve per forza essere. Quindi le cose tendono a suggerire il nome con cui chiamarle ma dopo di che l'uomo ci lavora sopra correggendo il tutto con la ragione. Ancora oggi, comunque, ci sono parole onomatopeiche, che suggeriscono l'essenza del soggetto cui sono riferite ("zanzara","cornacchia"...).
Ma cosa c'entra tutto questo nell'ambito del "Cratilo" e della discussione del vero-falso? Più di quello che potrebbe sembrare; per Platone entrambe le possibilità per denominare le cose negano la possibilità dell'errore: le parole corrispondono esattamente alle cose, o sono totalmente artificiali o totalmente naturali. Se mi attengo alla teoria "katà fusin" un libro mi suggerisce la parola con cui chiamarlo ed è solo quella, non c'è possibilità di errore. Se mi attengo al "katà nomon" i nomi sono totalmente artificiali e quindi vanno bene tutti, lo posso chiamare libro, ma anche tavolo, scarpa... sarà in ogni caso corretto e anche qui non c'è possibilità di sbagliare.
Il far corrispondere al meglio (con un misto di lavoro naturale e artificiale) il nome all'essenza delle cose consente di affermare che l'errore esiste e che la retorica (quella vera è) è la filosofia. Platone si sposta poi dalle cose alle idee: così come si possono dare nomi alle cose che si conoscono, si possono dare nomi alle idee che si conoscono, c'è una dimensione conoscitiva e vi è uno sforzo di attribuire nomi che esprimano l'essenza di ciò a cui si riferiscono.


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Dialoghi di Platone - Teeteto

Il “Teeteto” è un’opera filosofica che fa parte dei cosiddetti  “dialoghi dell’avanzata maturità’ “  riconosciuti al grande filosofo greco. Di Platone, infatti, ci sono pervenuti 35 Dialoghi e 13 Epistole ma della loro autenticità si è molto discusso sin dai tempi antichi: attualmente gli vengono riconosciuti come autentici, 28 Dialoghi e 4 Epistole.
Gli interlocutori di questo dialogo sono Socrate, rappresentato negli ultimi giorni della sua vita nell’atto in cui sta presentandosi all’Arcade Re per rispondere dell’accusa di empietà, e due matematici del tempo: Teodoro e il suo discepolo Teetèto che in futuro diventerà famoso. La scelta di due matematici, quali interlocutori di Socrate, ha uno scopo ben preciso: per Platone, la matematica e la geometria hanno un valore altamente propedeutico (all’ingresso dell’Accademia da lui fondata c’è scritto: “Non entri chi non conosce la Geometria”) ed i matematici stessi, come i filosofi, hanno un grande interesse per la definizione del concetto di scienza. Nei Dialoghi di Platone, infatti, viene sempre proposto un argomento di discussione e nel caso del “Teetèto”, il tema è offerto dalla domanda: "Che cos’è la conoscenza scientifica (Epistème)?"

In questa opera, Platone, si pone il problema di dare al termine di conoscenza scientifica, un valore universale, e lo fa in un contesto non certo favorevole, poiché deve smontare le assurde teoria eraclitee che avevano un forte radicamento, anche nel mondo scientifico o presunto tale. Per far questo egli mette in primo piano, pur non citandola, la dottrina delle idee: il mondo in cui viviamo è il mondo del continuo cambiamento, gli stessi uomini nascono, crescono e muoiono ma esiste un mondo (Iperuranio) costituito da idee, ossia da modelli eterni e immutabili, aventi una propria realtà oggettiva. Egli sostiene che qualora non si tenga conto di questa dottrina, non è possibile fondare la scienza. Il tema dominante del dialogo è la possibilità dell’errore, a questo tema sono dedicate tredici pagine(187b-200c) ed è questo l’argomento fondamentale sul quale si sviluppa tutta l’opera: la sola sensazione, la sola opinione, il solo discorso, non danno ragione del conoscere poiché non danno ragione dell’errore, pongono cioè sullo stesso piano la verità e l’errore, il conoscere e il non conoscere. Ecco che Platone, pur non abbandonando la teoria delle idee, deve comunque riesaminarla e approfondirla mettendola in relazione con quelle che sono le conoscenze umane. Occorrono insomma delle basi razionali e oggettive che permettano di indicare le relazioni di inclusione ed esclusione tra le varie idee. Il processo dialettico deve servire proprio a questo e non viene più inteso come processo di unificazione tra le varie idee verso l’idea assoluta.
Il concetto di scienza, ha interessato nel corso degli anni molti filosofi e studiosi e oggi è normale associare tale termine a quello di sperimentazione scientifica. Anche la didattica è definita “Arte e Scienza dell’insegnamento”, proprio perché si avvale del metodo sperimentale che si sviluppa in tre fasi:
1) Fissazione dei principi
2) Produzione dell’esperienza didattica
3) Bilancio critico dell’esperienza
Viene quindi prodotta una esperienza didattica necessaria per dimostrare dei principi fissati precedentemente. La valutazione critica dei risultati ottenuti ci permetterà di giudicare il metodo didattico sperimentato.
Anche lo studio della psicologia si è avvalso nel corso degli anni della sperimentazione scientifica. Le due maggiori scuole di Psicologia nate nel xx secolo: Behaviorismo e Gestalt, che hanno dato un contributo fondamentale alla didattica, hanno basato le loro teorie su dati di fatto della sperimentazione scientifica, liberandosi di concetti astratti spesso legati a pregiudizi razziali e genetisti. Il Behaviorismo ha studiato appunto il comportamento dell’uomo, qualcosa che si può osservare, misurare, valutare.
Il capostipite di questa corrente, lo studioso J.B. Watson (1878-1958), ha preso spunto dagli esperimenti dello scienziato russo Ivan Pavlov sui cani per evidenziare come, anche nell’uomo, si possano condizionare determinate risposte in presenza di precisi stimoli. Successivamente B.F. Skinner (1904-1990), behaviorista, ha ampliato il concetto di stimolo legandolo al rinforzo inteso come cemento dell’apprendimento.
La teoria dell’ “Insight” o lampo di genio, uno dei capisaldi della Gestaltheorie, ha preso corpo grazie agli esperimenti di Wolfgang Kholer (1887-1967), sulle scimmie antropomorfe. Dai suoi studi si è ricavato che non sono sufficienti gli stimoli per pervenire all’apprendimento, alla soluzione di problemi anche semplici, ma c’è bisogno anche di quello che è stato definito “intuito” o “intuizione intellettiva”.
Possiamo inoltre affermare che il “Teetèto” sia la chiara espressione di quello che è il metodo dialogico di Socrate. Lo stesso filosofo, nelle pagine 149 e 150 dell’opera, parla esplicitamente del suo metodo ereditato da sua madre che esercitava appunto l’arte maieutica, arte di aiutare le donne a partorire i bambini. Socrate afferma di non avere idee proprie da proporre o da imporre e sono nel giusto coloro che gli rimproverano di non offrire mai una soluzione alle questioni, egli formula solo delle domande opportune, contesta le risposte erronee (ironia socratica) e aspetta che la mente, così sollecitata e liberata, partorisca le idee. La moderna metodologia didattica ha ereditato il cosiddetto “metodo maieutico” classificandolo come un ottimo metodo dialogico-dialettico efficace per l’apprendimento.
Il metodo si basa soprattutto sulla interlocuzione costante dei soggetti implicati nella comunicazione didattica, attraverso la ricerca e la confutazione. Di queste tematiche si è occupato lo studioso americano David Ausubel che nella sua opera “Educazione e processi cognitivi “ (1978) considera il metodo di apprendimento “per scoperta significativo”, riconducibile al metodo maieutico, il più importante qualitativamente.
A mettere insieme vari elementi sulla conoscenza, grazie alle esperienze raccolte, è stato lo psicologo- pedagogista svizzero Jean Piaget(1896-1980).
E’ stato il fondatore della “Epistemologia genetica” ovvero lo studio dei problemi della scienza, in relazione agli sviluppi dell’intelligenza nel corso della vita. Egli afferma che ogni individuo è predisposto per formare una sua struttura cognitiva (strutturalismo). Tale struttura viene analizzata da Piaget nella psicologia dell’età evolutiva ovvero l’età dello sviluppo che va da 0 a 25anni. Oltre i 25 anni, la struttura cognitiva dell’individuo si stabilizza, continua a mutarsi ma è meno permeabile ai condizionamenti esterni: da 0 a 12 anni l’individuo apprende la cosiddetta Conoscenza Sensibile o Empirica che possiamo definire come conoscenza concreta; tra i 12 e 13 anni scatta la capacità di ragionamento complesso, basata sulla ragione analitica ovvero sulla ragione capace di analisi; da 13 a 25 anni si sviluppa la Conoscenza Intellettiva ovvero la capacità dell’individuo di penetrare nella sostanza della sfera indagata e nei suoi nessi.
Entrambe le conoscenze (Sensibile e Intellettiva) sono importanti per l’individuo, purché si intreccino tra loro dialetticamente nel processo di apprendimento. E’ come dire che gli insegnamenti del maestro o del docente non generano l’intero sapere, sono appena uno stimolo per l’espressione di esso dall’interno.


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Dialoghi di Platone - Sofista (parte prima)

Il punto di partenza del Sofista si ha quando Socrate, prima di uscire di scena dal dialogo, si domanda se anche per lo Straniero di Elea i termini "sofista", "filosofo" e "politico" designino tre diverse realtà, o piuttosto due o magari una sola: potrebbe infatti essere che quei tre nomi si riferiscano a realtà diverse.
Da qui prende le mosse la riflessione, incentrata sulla definizione del sofista; ma, ancor prima di affaticarsi in tale ricerca, pare opportuno agli interlocutori definire preventivamente il metodo da impiegare, e, per fare ciò, essi ricorrono ad un esempio banale e triviale, che vada bene per saggiare il metodo scelto. Il metodo che viene scelto è quello diairetico, che consiste nel dividere per due spingendosi sempre verso la parte destra; così, nel definire la "tecne" della "pesca con la lenza", si dirà che tutte le tecniche si dividono in "tecniche di produzione" (quando producono qualcosa) o in "tecniche di acquisizione" (quando acquisiscono qualcosa di già prodotto). Evidentemente la "pesca con la lenza" rientra nel novero delle "tecniche di acquisizione", a loro volta, le tecniche di acquisizione possono essere "per contratto" (quando si acquisisce qualcosa tramite un contratto) o "per caccia"; evidentemente la pesca con la lenza acquisisce i suoi oggetti tramite la caccia. Ma la caccia può essere scoperta oppure occulta. E la pesca con la lenza è occulta, giacché chi pesca non lo fa certamente allo scoperto dinanzi agli oggetti di cui cerca di impossessarsi. E ancora: si possono cacciare animali terrestri oppure natanti; e la pesca con la lenza mira a cacciare animali natanti. Procedendo per questa via si arriva alla definizione conclusiva per cui la pesca con la lenza è una tecnica acquisitiva tramite caccia occulta di animali natanti colpendoli dal basso verso l’alto. Dopo aver suffragato la validità del metodo diairetico alla luce di una definizione banale quale può essere quella del pescare con la lenza, è giunto il momento di applicare il nuovo metodo nel tentativo di definire il sofista: ed è qui che lo Straniero nota con sorpresa che l’arte del sofista non è poi così distante da quella del pescatore con la lenza, giacché anche il sofista è un cacciatore, anche se si tratta di un cacciatore sui generis; la sua è infatti una tecne acquisitiva con cui caccia occultamente animali non natanti (come era per la pesca con la lenza), ma "domestici" (se così possiamo definire l’essere umano) al fine di guadagnarci denaro. E’ questa la prima definizione del sofista: egli è un cacciatore di giovani facoltosi. Ma essa non esaurisce l’essenza del sofista, di questo mostro dalle mille teste che si rintana laddove è più difficile stanarlo: diventa allora necessario ricorrere ad altre definizioni che ne svelino l’essenza. Attraverso la seconda definizione, lo Straniero e Teeteto giungono a definire il sofista come un commerciante di nozioni inerenti all’anima e – grazie alla terza definizione – precisano che egli è un venditore al minuto di tali nozioni; ne consegue, allora, che il sofista è un venditore del proprio sapere (ed è, questa, una cosa che Platone non può in nessun modo perdonare alla sofistica). Ma in certo senso il sofista non si limita a cacciare occultamente le proprie prede: egli si dà anche alla caccia aperta, lottando con arte nei discorsi: siamo dunque giunti alla quarta definizione del sofista. Ben si può arguire come le quattro definizioni finora fornite siano alquanto impietose e negative: ed ecco che ora, inaspettatamente, lo Straniero cambia rotta e rivaluta il sofista, asserendo (quinta definizione) che egli esplica, mediante il suo martellante confutare, una funzione catartica, purificando le anime dai falsi concetti. Socrate stesso, con il suo costante interrogare gli Ateniesi facendo scricchiolare le loro certezze pregiudiziali, può a pieno titolo rientrare in questa definizione; in quest’accezione, lo Straniero ha qui scoperto l’esistenza di una "nobile sofistica", pur precisando che essa assomiglia alla comune sofistica come il cane assomiglia al lupo.
Le difficoltà si parano dinanzi con la sesta definizione: il sofista si professa capace di contraddire su qualsiasi argomento, dando ai suoi interlocutori la parvenza di essere pienamente in possesso di tutto lo scibile umano. Ma – obietta lo Straniero – sapere tutto è impresa che scavalca le forze umane, sicché il sofista si dice esperto di ogni cosa senza tuttavia essere realmente tale; per meglio chiarire questo punto, lo Straniero sostiene che "di colui che promette di essere capace, con una sola arte, di fare tutte queste cose, noi conosciamo questo, che sarà in grado di compiere imitazioni e omonimi delle cose reali, e mostrando da lontano quel che ha dipinto, sa trarre in inganno gli sprovveduti fra i ragazzi giovani, che egli è in grado di portare a termine con le opere tutto ciò che vuole fare". In questo senso, il sofista si colloca sul piano della doxa (doxa) "parvenza" e ben si capisce l’analogia instaurata dallo Straniero con le immagini: come il sofista si dice esperto conoscitore di ogni cosa senza esser tale, così l’immagine riproduce l’oggetto di cui è immagine senza tuttavia essere quell’oggetto. Alla stregua del pittore, il sofista è un imitatore delle cose, le copia creando immagini di ciò che vede; egli è dunque riconducibile al genere della parvenza.


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Dialoghi di Platone - Sofista (seconda parte)

Ma – e qui già si affacciano le prime difficoltà – l’arte imitativa si suddivide in "icastica" (nel caso in cui copi fedelmente la realtà) e in "fantastica" (quando invece dà adito a parvenze illusorie che distorcono la realtà anziché riprodurla). A quale delle due forme di arte imitativa appartiene il sofista? E – soprattutto – in che senso si può parlare di parvenza come di un qualcosa che è, ma che al contempo non è la cosa di cui è parvenza? Dicendo che una stessa realtà è e non è insieme si sta infatti violando la prescrizione parmenidea secondo cui il non-essere non è e non può essere pronunciato. Prende qui le mosse la tematica centrale del Sofista: il problema dell’essere e del non-essere e, di conseguenza, di come sia possibile dire il falso (con ripresa delle tematiche trattate aporeticamente nel Cratilo). Con il caso dell’immagine ci troviamo dinanzi ad un’inquietante questione: ci troviamo infatti costretti ad ammettere che il non-essere sia, poiché altrimenti non sarebbe ammissibile la possibilità di dire il falso; e, così facendo, si violano le prescrizioni di Parmenide, strenuo sostenitore – in prosa e in versi – dell’impossibilità di ammettere che il non-essere sia. Per tale via, già comincia a profilarsi quello che, più avanti, verrà etichettato come un autentico parricidio di Parmenide: come è possibile pronunciare il non-essere, domanda lo Straniero? E, pronunciandolo, si riferisce a qualcosa che è (to on)? Teeteto si trova in imbarazzo e rinuncia a rispondere, lasciando al più esperto Straniero l’onere; questi sostiene che il non- essere non dev’essere riferito a qualcuno degli enti, giacché ciascuno di essi è e, per ciò, non può non essere; ne segue, allora, che il non-essere non si riferisce ad alcuna cosa, né si afferma di nulla: tutto ciò che è non può non essere; ma, accanto a questa valenza assoluta del non-essere (non-essere come non-esistente), occorre ammetterne una relativa, in cui il non-essere abbia il valore di copula, come quando diciamo che "la penna non è il tavolo" (dove "non è" non significa che la penna è il non-essere, ma, semplicemente, che la penna è qualcosa di diverso rispetto al tavolo). La soluzione per superare l’aporia parmenidea risiederà allora nell’ammettere il non-essere relativo: ma se a ciò che è possiamo unire altre cose che sono (la penna è blu, la camera è grande, ecc), che cosa potremo mai unire al non-essere? Certamente non qualcosa che sia, come ad esempio il numero: delle cose che sono posso dire che sono una, due, tre, ecc, ma non posso compiere siffatta operazione col non-essere e, di conseguenza, diventa impossibile nominarlo. Tutti i nomi sono o singolari o plurali, e, in forza di ciò, parlare di "non-essere" è automaticamente contraddittorio, giacché – applicandogli un nome singolare – è come se si dicesse che il non-essere è uno. Da ciò lo Straniero – qui in perfetta sintonia con gli ammaestramenti di Parmenide - trae la conseguenza dell’ineffabilità del non-essere; ma questo non è tutto: non solo non si può affermare il non-essere; addirittura non è possibile neanche negarlo, giacché, nel momento in cui dico che il non-essere è ineffabile, già ne sto parlando, cadendo nella contraddizione testé enunciata.
Ben si capisce, allora, come il Sofista – giocoliere dell’apparenza – si sia andato a rintanare nel non-essere e come, al fine di stanarlo, sia necessario ammazzare Parmenide, riconoscendo che anche il non-essere è. Dobbiamo in primis capire che cosa sia l’immagine – di cui il sofista è maestro – e, per fare ciò, dobbiamo chiarire il rapporto intercorrente tra essere e non-essere, in quanto l’immagine si presenta come qualcosa che al contempo è e non è (assomiglia al vero senza essere vera). L’immagine infatti, in quanto esistente, è: ma, in quanto copia dell’oggetto di cui è immagine, non è la cosa stessa di cui è copia, è altra rispetto ad essa. E’ qui introdotta pienamente la tesi del non-essere come essere altro rispetto alla cosa: il sofista, assiduo produttore di immagini, ci ha indotti ad asserire che il non-essere è, commettendo il parricidio di Parmenide; così la falsa opinione sarà quella che opina ciò che non è.


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Dialoghi di Platone - Sofista (terza parte)

Lo Straniero rileva che, mentre riguardo al non-essere i predecessori non hanno lasciato grandi testimonianze, intorno alla tematica dell’essere essi si sono sbizzarriti in un mare magnum di interpretazioni, tutte insoddisfacenti perché contraddittorie; comincia a questo punto una digressione dossografica, in cui lo Straniero esamina – e demolisce – le posizioni maturate dai filosofi precedenti, accusati di esser stati troppo sbrigativi nell’affrontare la questione e, soprattutto, di essere incapaci di rispondere se interrogati. Sembrano quasi raccontare miti di cui non sono in grado di render conto, come se i loro interlocutori fossero bambini che si accontentano di qualsiasi risposta. C’è stato chi (Ferecide di Siro?) ha fatto coincidere l’essere con tre enti, chi (Empedocle da Agrigento) l’ha individuato nell’eterno incontrarsi e scontrarsi di elementi prima amici poi nemici, chi (Anassagora di Clazomene e il suo discepolo Archelao) l’ha ricondotto ad una miriade di "semi": tutti costoro sono ricorsi alle qualità e non alla materia, assumendo peraltro qualità fra loro contrastanti e autoelidentisi. Si tratta di spiegare il divenire universale delle cose, quale era stato colto da Eraclito di Efeso. Lo Straniero individua come "capostipite della nostra tribù eleatica" Senofane di Colofone: in realtà qui Platone ci sta suggerendo una dipendenza più concettuale che storica, accostando l’unicità del Dio di cui parlava Senofane all’unicità dell’essere quale veniva inteso da Parmenide. Dopo di che, lo Straniero opera un raffronto tra le "muse ioniche" (Eraclito) e le "muse siciliane" (Empedocle), asserendo che le prime sono più intonate, mentre le seconde sono più rilassate (stoccata al fatto che Empedocle ha cercato, con una posizione compromissoria, di dire che l’essere è uno e molteplice, tenuto insieme dall’Odio e dall’Amore, di contro alla prospettiva di Eraclito, che ha invece concepito la realtà come un arco teso, facendo di essa un’enorme armonia discordante). Per lo Straniero, l’essere è "il genere primo di tutte le cose", ciò che le cose sono in quanto sono; sbagliano i dualisti a riconoscere l’essere in due princìpi (il caldo e il freddo), poiché, così facendo, è come se parlassero di tre princìpi (caldo, freddo ed essere) e non di due; per non cadere in tale contraddizione, i dualisti si trovano costretti ad ammettere che l’essere si identifichi coi due contrari: ma se l’essere è il caldo, allora non è il freddo, il quale – essendo contrario al caldo e, dunque all’essere – sarà non-essere. I dualisti possono ancora cercar riparo nell'ammissione che l’essere sia somma di caldo e freddo, ma allora l’essere è ancora una volta ricondotto a unità e non a dualità (a+b=c, ma c è uno!). Dimostrata l’inconsistenza della posizione dualista, siamo rimandati a quella unitarista alla Parmenide: "l’essere è uno", proclamano gli unitaristi, ma la loro posizione solleva non meno difficoltà di quella dualista. Innanzitutto: se l’essere è uno, come fa ad avere due nomi (essere e uno)? Può una cosa avere due nomi? In questo modo, Platone si sta riallacciando al Cratilo, ove si sosteneva che il nome non è né totalmente diverso dalla cosa nominata né ad essa identico, altrimenti sarebbe un doppio della cosa stessa. Quando poi gli unitaristi asseriscono che l’essere è un tutto – prosegue lo Straniero di Elea -, che cosa intendono esattamente? Già Parmenide ricorreva alla sfera come immagine dell’essere: ma essa – obietta lo Straniero – è costituita da parti e, per ciò, sarà sì un uno, ma non l’uno. Accanto a questa contesa che per protagonisti vede i dualisti contrapposti agli unitaristi, ve n’è un’altra, molto più aspra, combattuta tra i materialisti (sostenitori che l’essere è la materia) e gli idealisti (per i quali l’essere si identifica col platonico mondo delle idee). I primi – "uomini terribili" - vengono paragonati ai Titani che cercano di salire alle vette dell’Olimpo per usurpare il regno agli dei, trascinando ogni cosa dal cielo alla terra, mentre i secondi – paragonati agli dei – combattono dalle invisibili regioni del mondo intelligibile delle idee e son detti "amici delle idee"; essi cercano di innalzare tutte le cose verso il cielo, in antitesi all’operare dei materialisti. I primi credono nell’esistenza soltanto di ciò che stringono fra le mani, ovvero ciò che offre resistenza al contatto; i secondi sostengono invece che la vera realtà è data dall’incorporeo e dall’invisibile, forme meramente intelligibili; la realtà dei primi è massicciamente compatta; quella dei secondi è evanescente. Ora, sarebbe plausibile aspettarsi che Platone – dietro la maschera dello Straniero – parteggi per gli idealisti, rispecchianti in buona parte le sue stesse posizioni: eppure non è così; pur mantenendo una posizione più aperta verso di essi, egli non si esime dal criticarli aspramente per una sfilza di motivi che presto prenderemo in esame. Anche se la discussione coi materialisti si prospetta assai più difficile, in quanto essi rivelano una natura a tal punto testarda e avversa al dialogo da far credere che quella materia che - a loro dire – è il vero essere, abbia intasato le loro menti; l’unica soluzione per intavolare un dialogo sarà allora quella di far finta che essi siano presenti e ben disposti. Per cercare di farli ragionare, lo Straniero pone loro una domanda: esiste o non esiste qualcosa che chiamiamo "vivente mortale"? Dopo che essi hanno risposto affermativamente, lo Straniero incalza: ci dovrà allora essere almeno una cosa incorporea, l’anima, che non oppone resistenza; che essa esista è provato dal fatto che tutti quanti ne parliamo. Allo stesso modo, tutti quanti parliamo delle virtù (il coraggio, la giustizia, il valore, ecc), sicché esse esistono: ma potremo forse addivenire alla conclusione che la giustizia, in quanto esistente, sia qualcosa di materiale? Da ciò segue che anche l’incorporeo deve avere una sua esistenza, alla pari del corporeo (e forse anche di più): reale sarà allora ciò che comunque, piccolo o grande che sia, può compiere o subire una qualche azione. In questa maniera, l’essere è ricondotto alla possibilità, in quanto esiste tutto ciò che ha la "δυνατόν" (possibilità appunto) di compiere e/o subire azioni ("gli enti non sono altro che possibilità").


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Dialoghi di Platone - Sofista (quarta parte)

Data questa definizione, si potrà con certezza asserire che esistono anche – oltre alle entità materiali in grado di agire – entità immateriali (le idee) che subiscono l’azione di essere conosciute. Sul versante opposto a quello dei materialisti, gli idealisti distinguono e separano ciò che è corpo da ciò che non lo è: se corpo è ciò che muta senza posa, sottoposto a quel fluire incessante riconosciuto da Eraclito e da Cratilo (panta rei), incorporeo è, al contrario, ciò che è stabilmente sé stesso. Ma che rapporto sussiste, allora, tra il reale e l’ideale? Tra il corporeo e l’incorporeo? Nel Parmenide la questione rimaneva irrisolta, e anzi non faceva altro che creare nuove difficoltà: noi esseri umani – anfibi tra il corporeo e l’incorporeo – col corpo partecipiamo del divenire, con l’anima dell’immutabile; e, propriamente (concetto su cui Platone non si stanca mai di insistere nei suoi scritti), si può avere reale conoscenza solamente di ciò che non è soggetto al mutamento, ovvero la vera conoscenza sarà quella delle idee. Esse, nella misura in cui possono subire l’azione di essere conosciute, sono: anche le idee, e non solo i corpi, sono. Ma a questo punto Platone conduce una severa critica ai danni degli idealisti: pur avendo essi il merito di non arrestarsi al corporeo, cadono in errore nella misura in cui ritengono che ciò che veramente è non possa che essere assolutamente immobile, al pari di venerande statue immobili e incapaci di agire. E’ del tutto errato, prosegue Platone, illudersi che le idee siano immobili e statiche: in questo modo, Platone sta conducendo una critica a se stesso, in particolare alle posizioni maturate ai tempi del Fedone, quand’egli aveva scorto nel mondo delle idee un mondo assolutamente stabile e immobile e, perciò, pienamente conoscibile. Ora, egli riconosce che le idee – il vero essere – devono avere vita, movimento e intelligenza; in particolare, il vero essere deve essere animato. Ma gli "amici delle idee" non vogliono accettare la definizione dell’essere come movimento, giacché esso – sostengono – può al massimo riguardare il mondo sensibile: dal canto loro, le idee sono del tutto sottratte alla possibilità di mutare, cosicché tra il mondo iperuranico e quello materiale sussiste una dicotomia assoluta, tale per cui non vi è alcuna comunicabilità tra i due: tra il primo, fermamente stabile e immutabile, e il secondo, costantemente cangiante, non può esservi alcuna koinonia (combinazione), sicché essi si trovano a essere sganciati tra loro, senza alcun punto di contatto. Ma Platone, contrariamente a quanto sosteneva ai tempi del Fedone, si propone qui di farli entrare in contatto, pur conservando la loro indiscussa eterogeneità: col corpo partecipiamo del sensibile, con l'anima dell'intelligibile; ma come dobbiamo intendere tale partecipazione? Non è forse tale partecipare una forma di agire e di subire? La conoscenza stessa non si configura forse come un agire/subire, per cui l’essere subisce l’azione di venir conosciuto dall’anima? Per questa strada gli "amici delle idee" sono sconfessati: l’essere subisce azioni (è conosciuto), e l’anima le compie (conosce); ma, subendo e compiendo azioni, l’essere non può non essere in movimento; e, se è in movimento, allora è anche vivo e animato, nonché intelligente. Proprio qui sta la rivoluzione apportata dal Sofista al sistema platonico: il mondo delle idee, da immutabile e fisso che era, diventa ora vivace, mobile e intelligente. Ma dove vi è moto dev’esserci anche quiete, poiché senza di essa non potrebbe esserci alcuna forma di moto (come senza male non potrebbe esservi alcun bene): se ci fosse solo movimento, non si attuerebbe alcun processo; e, del resto, se vi fosse solo quiete, nulla si muoverebbe né potrebbe esserci intelligenza. A questo punto, abbiamo identificato tre generi fondamentali: l’essere, il moto e la quiete; ma ecco che ci si para dinanzi una nuova difficoltà: moto e quiete sono tra loro opposti, ma noi abbiamo detto che ugualmente sono (la quiete è, il moto è). E, dicendo ciò, non asseriamo forse qualcosa di contraddittorio, essendo essi opposti? O sono equivalenti? Se il moto è e la quiete è, allora moto e quiete si identificano? L’unica soluzione risiede nell’affermare che l’essere sia un terzo elemento, diverso sia dalla quiete sia dal moto. E come si può risolvere, in tal contesto, il problema della predicazione? Come sono attribuibili molteplici proprietà ad un unico soggetto (A è B, C, D, E, ecc)? Predicando, dico che qualcosa che è (A), è al contempo altre cose rispetto a sé (B, C, D, E, …). Non può trattarsi di mera identità, sennò ci sarebbe una duplicazione: ma come possiamo allora dire che l’uomo è buono, brutto, grasso, alto, ecc? Antistene aveva risolto la questione ricorrendo all’espediente del "giudizio identico", in virtù del quale ogni cosa ha solo il proprio nome ("uomo è uomo", "gatto è gatto", "bello è bello", ecc): ma è davvero una soluzione soddisfacente quella di Antistene? Essa non può in alcun modo render conto del fatto che il genere del moto entri in contatto col suo opposto, il genere della quiete. Le alternative possibili per spiegare la combinazione tra i due, sono tre:
a) tutto si unisce con tutto, ovvero tutti i termini si combinano indistintamente fra loro;
b) niente si combina con niente;
c) solo in certi casi è possibile la combinazione.
Nel secondo caso – "niente si combina con niente" -, quiete e moto non potrebbero partecipare dell’essere: dunque non sono; a livello logico diventa allora impossibile perfino parlare (giacché parlare equivale a combinare insieme parole). Nel primo caso – "tutto si unisce con tutto" – (sostenuto dai mobilisti), moto e quiete finirebbero per unirsi: il moto starebbe fermo e la quiete si metterebbe a correre. Escluse le prime due possibilità, non resta che riconoscere la validità della terza: la combinazione è possibile solamente in certi casi. E sapere in quali casi e secondo quali modalità operare tali combinazioni richiede necessariamente il possesso di una tecne, come il dare i nomi nel Cratilo: in particolare, spetta al dialettico la perizia e l’abilità nel saper combinare i generi fondamentali. Ma la dialettica qui in questione non è più quella della Repubblica, incentrata sulla formulazione di ipotesi di spiegazione da sottoporre a verifica; anche il dialettico del Sofista opera solo su idee, ma secondo modalità assai differenti rispetto a quello della Repubblica: operando sulle idee, egli opera sul vero essere (di contro al sofista, che invece lavora sul non-essere, sulla mera apparenza), in particolare egli sa dividere per generi, senza scambiare un genere per un altro. La dialettica sarà allora il dividere per generi ideali, sapendo tagliare – al pari del buon macellaio, secondo l’immagine del Fedro – finché è possibile, fermandosi quando si arrivati al termine del processo. Ma le cose sensibili, in quanto imitanti – seppur opacamente - quelle intelligibili, presentano in certo senso la medesima struttura, su di esse si riverbera la stessa costituzione, cosicché, conoscendo i generi ideali e le loro possibili combinazioni, il dialettico conoscerà l’essenza stessa della realtà sensibile: ecco che Platone ha trovato il punto di incontro tra i due mondi, intelligibile e sensibile. A partire dai generi ideali, infatti, il dialettico arriva a definire le cose sensibili: ed è così che posso definire il pescare con la lenza facendolo rientrare nei generi, operando costantemente rinvii tra reale e ideale. Procedendo nella divisione, si raggiunge l'idea, ovvero "l’idea non ulteriormente divisibile" e, con ciò, si è giunti alla definizione della cosa in questione: vista un’idea, il dialettico la sa seguire in tutte le sue articolazioni, scorgendo tutto ciò che essa contiene. Ne segue, allora, che l’ufficio del filosofo è di occuparsi dell’essere, mentre il sofista si è rintanato nel buio del non-essere: sia il filosofo sia il sofista risultano però difficili da cogliere, giacché il primo è troppo in luce (nell’abbagliante regione dell’essere), il secondo è al buio completo del non-essere. Il rapporto dialettico viene così a configurarsi come un rapporto uno/molti: ora molte idee si congiungono in unità, ora tale unità si fraziona in un molteplice di idee ricomprese al proprio interno. E spetta al dialettico ora riunire ciò che è diviso, ora dividere ciò che è unito, stabilendo relazioni di insiemi. E la possibilità di stabilire tali relazioni tra idee non fa che creare la stessa trama della realtà, di cui è a fondamento, giacché le idee sono il principio della realtà: sicché la comunione dei generi finora posta fonda la possibilità di comprendere la realtà e di predicarla nei discorsi.


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Dialoghi di Platone - Sofista (quinta parte)

Nel Sofista, in realtà, non si parla del rapporto idee/cose, ma si dice che se vi è comunione tra generi si può spiegare la realtà in modo veritiero: ma è proprio la possibilità di stabilire relazioni tra i generi il punto che divide gli "amici delle idee" da Platone; ammettendo tali relazioni, infatti, si ammette anche, di conseguenza, il movimento tra le specie ideali, senza più considerarle come statue immobili. Finora lo Straniero di Elea ha identificato tre "generi ideali" (essere, moto e quiete), precisando che l’essere non è un genere dotato di statuto privilegiato (pur essendo l’idea più semplice in assoluto). Sia il moto sia la quiete sono, dunque comunicano con l'essere, pur essendo fra loro opposti. A ciò lo Straniero fa seguire l’introduzione di due altri generi a sé stanti: l’identico e il diverso. In questo modo, Platone scopre quello che Aristotele chiamerà "principio di identità", per cui A è A e non è non-A. A questo punto, da tre che erano, i generi ideali son passati a cinque, irriducibili fra loro: ciascun genere è identico a se stesso, ma non è l’identico; ciascun genere è diverso dagli altri, ma non è il diverso. Ecco qua che riaffiora il problema del non-essere, ridotto ad "essere altro": ciascun genere non è nessuno degli altri quattro, nel senso che è da essi diverso. Sicché la penna non è il tavolo nel senso che essa è diversa dal tavolo. Così il moto non è quiete, ma al contempo è (partecipa dell’essere): insieme è e non è; così il moto non è l’identico, ma è identico a sé; e ancora il moto non è il diverso ma è diverso dagli altri quattro generi. Ciascun ente, allora, una volta è (in quanto identico a sé) e infinite altre volte non è (per tutte le volte che è diverso da tutti gli altri enti che sono): in questo modo il parricidio del venerando Parmenide è definitivamente consumato, in quanto l’essere stesso non è (non è la quiete, non è il moto, non è l’identico, non è il diverso). Il non-essere in questione, ovviamente, non è più quello assoluto, a cui si riferiva Parmenide: è invece il non-essere come essere diverso; sicché il non-essere viene ad essere un genere alla pari dell’essere: essere e non-essere sono ora diventati termini correlativi, per cui è possibile pensare a ciò che non è (si può pensare e dire il falso, dunque si può contraddire). Sbagliano clamorosamente, allora, gli amici delle idee a sostenere che nulla si combina con nulla, ma sono altrettanto in errore quanti sostengono che tutto si combina con tutto, poiché altrimenti ci si troverebbe costretti ad ammettere che la quiete è il moto. Spetta appunto al dialettico operare le giuste connessioni: la sua opera è fallibile, giacché – non potendosi combinare tutto con tutto né nulla con nulla – è sempre in agguato l’errore, l’eventualità di dire il falso. Se nulla comunicasse con nulla, allora non si potrebbe nemmeno parlare e sarebbe impossibile la cosa più preziosa di cui disponiamo: la filosofia. Se invece tutto si connettesse con tutto, allora tutto sarebbe vero (come credeva Protagora di Abdera) e non si potrebbe mai commettere alcun errore. Il discorso è dallo Straniero definito come "connessione reciproca tra idee", ovvero come traduzione sul piano linguistico della connessione tra generi ideali. Ora si deve vedere come funzioni l’applicazione del diverso (il non essere) a livello linguistico: in prima battuta lo Straniero si domanda se il non-essere si unisca oppure no a qualche cosa o, in alteri termini, se al livello del discorso alcune cose comunichino con altre. Se ammettiamo che il non-essere non si unisca con alcunché, allora ci troviamo costretti a riconoscere – con Protagora, con Cratilo e con Eraclito – che tutto è vero. Se, al contrario, ammettiamo che il non-essere possa unirsi con le cose, allora potremo riconoscere la possibilità dell’errore e, in forza di ciò, potremo snidare il sofista cogliendone l’essenza reale. In prima battuta, occorre chiarire in che maniera il non-essere si applichi al discorso e in qual senso si possa parlare di opinione, illusione, verità. Dopo aver definito il discorso come intreccio di parole, dobbiamo dunque domandarci ora se tutte le parole, unite casualmente, diano un discorso; combinando fra loro parole a caso, si avrà sempre un discorso? È, in altre parole, sempre e comunque possibile la combinazione delle parole? O lo è solamente in certi casi e secondo determinate modalità? Accanto ai nomi però, è evidente, esistono anche le azioni, espresse dalla combinazione di nomi e verbi (ciò era nel Cratilo rigorosamente dimostrato): appare fin da ora evidente che non si avrà di certo un discorso quando si attuerà una giustapposizione di soli verbi ("corre corre") o di soli nomi ("uomo uomo"); viceversa, il discorso prenderà forma dalla combinazione di nomi e verbi, formando in tal maniera una proposizione (del tipo "Teeteto è seduto"). Il discorso è allora definibile sì come concatenazione, ma non casuale, di nomi e verbi: ed è a questo punto che scatta il principio di non contraddizione, in virtù del quale quanto enunciato nella proposizione può essere vero o falso, fermo restando che il discorso è sempre e in ogni caso discorso di qualcosa, mai di nulla (ciò è stato dimostrato da Platone nel momento in cui egli ha posto il non-essere come essere diverso, cosicché quand’anche si pensa il non-essere si sta pensando qualcosa che è). Così, quando dico che "Teeteto è seduto" sto enunciando un discorso che è evidentemente di qualcosa (nella fattispecie: di Teeteto), predico cioè qualcosa relativamente ad un dato soggetto; eppure dire "Teeteto è seduto" è ben differente dal dire "Teeteto vola": nel primo caso dico il vero, nel secondo il falso. In questo senso, vero e falso possono essere definiti – con una definizione destinata a fare storia. Vero sarà il discorso che asserisce le cose come sono, falso quello che le asserisce come non sono (ovvero diversamente da come realmente sono). Emerge qui chiaramente come sia possibile dire il non-essere, inteso naturalmente in senso non già assoluto (come voleva Parmenide), ma relativo: a quello assoluto, del resto, abbiamo dato l'addio da un pezzo, rileva lo Straniero. Così come è possibile dire il falso, è parimenti possibile avere pensieri, opinioni, immagini false. In particolare, se pensiamo qualcosa falsamente, allora pronunceremo quel qualcosa altrettanto falsamente: il pensiero (noein), infatti, altro non è se non un discorso (legein) che l’anima fa con se stessa senza ricorrere all’emissione della voce. Quando tal pensiero procede attraverso il flusso delle parole pronunciate dalla bocca, allora si ha il discorso, come già era stato messo in chiaro da Platone nel Teeteto. Il discorso ha la caratteristica di affermare o di negare qualcosa: quando ciò avviene nell’anima, si ha l’opinione, nel senso che è l’anima stessa a negare o affermare; nel caso in cui entri in gioco l’elemento sensibile non si ha più l’opinione ma l’immagine, come quando, vedendo una sagoma in lontananza, si afferma "quello è Teeteto!". Nel caso delle immagini, il falso è più in agguato che mai, giacché la sensazione è il regno dell’illusione e dello smarrimento. Ma ciò non toglie che sempre (anche a livello di immaginazione) il vero e il falso dipendano, in ultima analisi, dai generi ideali, in quanto esso altro non è se non il frutto della loro unione, cosicché dire il falso non è che attuare una falsa combinazione di generi ideali.


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Dialoghi di Platone - Sofista (ultima parte)

Ed è a questo punto, dopo quest’ampia digressione sui generi ideali e sul non-essere, che Platone si richiama direttamente alla definizione del sofista, che lo definiva come imitatore: come si ricorderà, l’intera digressione era per l’appunto nata a proposito dell’immagine come qualcosa che è e, insieme, non è. Si partiva dall’arte anti-logica (il contraddire) e si mostrava come il sofista fosse abile a contraddire su qualsiasi argomento e a insegnare ai suoi discepoli ad agire in tal maniera, di fronte a un uditorio di incompetenti a cui risultare sapienti senza esserlo. La figura del sofista si stagliava appunto all’orizzonte come figura di un individuo che non sa, ma che dà l’immagine di sapere.
L’arte mimetica si divide in a) icastica, consistente in una fedele riproduzione della cosa copiata; b) fantastica, consistente in una mera illusione, pura parvenza. La discussione si era proprio arenata dinanzi alla domanda: il sofista è un imitatore secondo l’arte icastica o secondo quella fantastica? Il problema è ora ripreso e, finalmente, risolto: per il sofista (pensiamo a Protagora) tutto è vero e, di conseguenza, anche le immagini lo sono. Ma noi abbiamo testé rilevato come esse possano anche essere false, nel caso propongano le cose come non sono, anche qualora si presentino sotto l’apparenza del vero. Impiegando il procedimento diairetico (tecnica divisoria), possiamo affermare che creare immagini è un’arte produttiva, tramite la quale si presenta l’immagine come verità. Ma l’arte produttiva, a propria volta, si divide in arte produttiva divina e in arte produttiva umana: in particolare, Platone asserisce (come fa anche nel Timeo e nel X libro delle Leggi) che la produzione divina è la causa del poter essere di cose che prima non erano; e ciò vale non solo per le cose, ma anche per le immagini delle cose. Nel Timeo egli si serve della mitica figura del Demiurgo per esprimere il nascere delle cose, plasmate da questo fabbro divino che si ispira alle idee eterne, imitandole; mentre nelle Leggi la forma mitologica cede il passo ad una più solida esposizione teoretica. Ora, nel Sofista, egli si domanda – sempre per bocca dello Straniero di Elea – se il mondo quale ci appare debba essere inteso come opera d’arte partorita dalla mente ingegnosa di una divinità o, piuttosto, come opera della natura e del caso, quasi come se l’ordine meraviglioso in cui il cosmo è disciplinato si fosse predisposto spontaneamente, senza finalità alcuna. Teeteto rivela di aver spesso oscillato tra queste due posizioni antitetiche, ma lo Straniero lo invita a non tentennare: ritenere una così perfetta creazione come frutto del caso è da stolti. All’interno del cosmo generato da Dio, opera a propria volta l’uomo, producendo attraverso la sua tecne personale: la tecnica produttiva può riguardare sia cose sia immagini, e ciò vale tanto per Dio quanto per l'uomo. Come cose Dio produce gli animali, gli alberi, le montagne, ecc; l’uomo produce invece le scarpe, le imbarcazioni, i tavoli, ecc; come immagini, invece, Dio produce le apparizioni oniriche, le ombre sul fuoco, ecc; l’uomo produce invece immagini di oggetti (la casa dipinta, l’uomo scolpito nel marmo, ecc). Ci troviamo dunque dinanzi non più ad un bivio, bensì ad un quadrivio (immagini divine, immagini umane, cose divine, cose umane) e il falso rientrerà nell’arte produttiva icastica o fantastica? Senz’ombra di dubbio nella fantastica, la quale produce mere apparenze, poiché nell’icastica si copiano le cose secondo verità. In questo senso, la sofistica come imitazione sarà definibile come arte produttiva umana di immagini imitanti in maniera fantastica. Ma non basta. A sua volta l’arte fantastica è divisibile in due sezioni: a) con strumenti; b) senza strumenti. Esempio del primo tipo può essere lo scultore che imita servendosi di marmo e scalpello; esempio del secondo tipo è invece l’imitatore che usa sé stesso come strumento (il mimo), presentandosi quale non è. Nell’imitare il sofista non si avvale di strumento alcuno fuorché di sé stesso e del talento oratorio. L’imitazione senza strumenti può ancora essere divisa in due livelli: a) l’imitazione di chi agisce con cognizione di causa (sapendo ciò che imita); b) l’imitazione di chi agisce senza cognizione di causa (ignorando ciò che imita). Di questo secondo genere è per l'appunto chi si proclama giusto e virtuoso senza realmente esserlo, ovvero chi finge di essere tale senza tuttavia sapere che cosa siano la giustizia e la virtù, riscuotendo peraltro successo presso chi è a sua volta ignorante di che cosa siano la giustizia e la virtù. Il sofista è dunque stanato: la sua non è un’imitazione con cognizione di causa, un’imitazione dossomimetica, ovvero imitante per opinione (mimèsi + doxa). Il sofista è allora dossomimetico, imita per opinione, senza reale conoscenza, è provvisto di un finto sapere che però egli non esita a vendere come reale. A questo punto lo Straniero opera un’altra divisione tra l’ingenuo e l’ironico: chi ha solamente opinione di sapere, ma si illude di essere davvero sapiente, è ingenuo, ovvero convinto di sapere ciò di cui ha solo opinione; egli inganna gli altri senza volerlo (e dunque non è condannabile); chi invece dissimula, fingendo di essere sapiente pur non essendolo e pur sapendo di non esserlo, ma ciononostante spaccia per vere le proprie opinioni, questo è l’ironico: ma l’ironico si divide ancora in due sezioni, secondo che svolga la propria attività ingannatrice di fronte alle folle con lunghi discorsi (in questo caso si ha il demagogo) oppure privatamente, con brevi discorsi capziosi, dando sfoggio di vuota verbosità roboante con domande e risposte. In questo caso si ha il sofista, ironico in privato e per soldi. Egli è dunque un dossomimetico ironico producente contraddizioni simulando e opinando, generando in ambito umano immagini illusorie non corrispondenti al vero. Egli, in quanto imitatore imbroglione e ciarlatano, è l’esatta contraffazione del filosofo ed è l’alter ego del demagogo: anzi, a rigore il sofista è più pericoloso, giacché esercita la sua azione in maniera capillare, facendo contraddire con domande e risposte in una dialettica serratissima. Anche l’attività di Socrate, è vero, si svolgeva attraverso la prassi delle domande e delle risposte, ma con la differenza che egli metteva in gioco anche le proprie convinzioni e agiva in vista del bene: il sofista invece, lungi dal volere il bene della polis e di chi vi abita, mira esclusivamente al guadagno personale, rovesciando con la parola la tavola dei valori.


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Re: Filosofia

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Commento e spiegazione del Sofista di Platone di Francesco Fronterotta



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Re: Filosofia

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Dialoghi di Platone - Politico

Platone voleva scrivere una trilogia : 1)il sofista 2)il politico 3)il filosofo: il primo l'à effettivamente realizzato, il secondo l'à cominciato ma non l'ha finito ed il terzo non l'ha mai neppure principiato.
Analizziamo ora il "Politico" : si intitola così e non "la politica" (come si chiamerà invece l'opera di Aristotele) perché Platone era convinto che per avere uno Stato perfetto occorresse che ci fossero uomini politici perfetti. Ma chi è il vero uomo politico? Platone parte dallo scartare la definizione omerica "il re è pastore di uomini" perché implica una superiorità di razza da parte del politico e ciò lo si poteva accettare solo se si torna all'epoca mitica in cui gli dei governavano gli uomini. Così come nel "Sofista" (in cui il tema centrale era la possibilità di dire il falso, il non essere) , anche nel "Politico" la definizione del personaggio passa in secondo piano e risulta scherzosa. Così come nel "Sofista", per definire si serve della "diairesis"(divisione), nel politico usa una tecnica analoga a quella del tessitore, che intreccia fibre di carattere diverso. Ancora oggi si suole usare l'espressione "tessuto sociale" per indicare che le funzioni si intrecciano. Nell'intrecciare i tessuti , ci sono caratteri più solidi ( coraggiosi, nella politica) ed altri più raffinati (intelligenti, nella politica); il politico deve sapere la misura per mescolare bene i diversi "strati" sociali. Ben emerge come Platone sia più rigido e meno sciolto (soprattutto nello stile) rispetto a quanto lo era in gioventù. Egli arriva ad affermare che nello stato perfetto non ci sarebbe bisogno delle leggi perché esse sono quasi un "male necessario" che si introducono in assenza dell'uomo politico perfetto. Infatti la legge per quanto cerchi di cogliere le sfumature non ci riesce mai totalmente e non è mai assolutamente giusta: dice di non rubare e di punire chi ruba con determinate pene, ma non dice, per esempio, di punire chi ruba due libri ed un quaderno con due mesi di carcere. Se ci fossero politici perfetti deciderebbero quale pena applicare in ogni determinato caso. Come il medico riesce a vedere in ogni frangente la cura da amministrare al paziente, così il politico, per Platone, deve prendere le decisioni senza essere vincolato dalle leggi. Ma nella realtà, dove è impossibile per definizione essere perfetti, Platone dice che le leggi sono necessarie, perché è vero che danno norme universali e non sempre giuste in tutti i casi , ma comunque in questo vincolare danno delle regole alle quali attenersi. Seguendole non si otterrà un risultato perfetto (che si otterrebbe invece seguendo il politico perfetto), ma comunque buono. Platone crea poi nel "Politico" una nuova gerarchia dei governi: al vertice mette sempre il suo stato ideale ma subito dopo si trovano i governanti che regnano secondo le leggi. Negli ultimi posti ci sono i governi in cui si comanda senza leggi. C’è una indubbia differenza tra sofista, politico, filosofo. Il filosofo è il massimamente sapiente e perciò è distante dal sofista, che invece simula conoscenza. Ma anche il politico è comunque uomo di una certa scienza,
cioè che possiede un certo sapere. Nel corso del dialogo Platone analizza questa figura e il suo sapere, capendo anche se e in che modo si distingua dal filosofo.


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Dialoghi di Platone - Parmenide

Appartenente, secondo la suddivisione tradizionale della sua opera, all'ultimo periodo della produzione letteraria del filosofo. Nel contesto dello sviluppo del pensiero platonico, il Parmenide rappresenta uno dei momenti più tesi di una decisiva fase autocritica: dialogo aporetico, esso porta alla luce e dibatte approfonditamente le difficoltà e le contraddizioni cui la dottrina delle idee – così come si era venuta costruendo e, in certa misura, sistematizzando nei dialoghi precedenti – sembrava dar luogo tanto nella sua interna struttura quanto nel raffronto con altre e diverse posizioni filosofiche. Parmenide, il pensatore eleatico dell'essere e dell'unità, è nel dialogo non solo l'interlocutore privilegiato di un Socrate ormai tutto “platonico”, ma altresì il punto di riferimento ideale di questo travaglio critico. È infatti nella rigorosa esigenza parmenidea dell'unità (dell'assoluta autoidentità dell'essere ideale) che Platone incontra l'interrogativo fondamentale posto a tutto quanto, nella teoria delle idee, è ammissione e legittimazione del molteplice e della trama di rapporti fra enti che il molteplice necessariamente implica. Il dialogo procede, così, per successive interrogazioni, che hanno la loro comune radice nella questione del rapporto tra enti ideali ed enti fenomenici. Posto che tra idee e cose vi sia un rapporto di partecipazione (metessi), questo può definirsi in due modi: o nel senso che la idea (unica) viene partecipata da una molteplicità di cose, o nel senso che le cose partecipano ciascuna di una sola parte dell'idea. In ogni caso, l'idea – unificante per funzione e unica per definizione – viene frammentandosi o parzializzandosi, nella sua relazione con la molteplicità fenomenica, così da rivelare una struttura intimamente e inconciliabilmente contraddittoria. L'ostacolo può essere aggirato sostituendo all'ipotesi del rapporto metessico, quella di un rapporto puramente mimetico tra cose e idee (tale, cioè, che le prime imitino le seconde senza intaccarne la struttura unitaria di “paradigmi” o modelli ideali), ma, anche in questo caso, non si evita una difficoltà che è comunque connessa con l'ipotesi in quanto tale di una relazione tra idee e cose: sia che le cose molteplici partecipino dell'idea che ne esprime l'unità, sia che solo la imitino, tra la molteplicità di quelle e l'idea si stabilisce una nuova molteplicità che va unificata in un'ulteriore idea, e così via in un processo all'infinito nel quale si dissolve la struttura di tutta intera la realtà. E vi è ancora una difficoltà di fondo che pone in discussione l'impianto stesso della dottrina delle idee: ordine ideale e ordine fenomenico appaiono in realtà come due mondi assolutamente incomunicanti ove si consideri che ciascun oggetto (ideale o fenomenico) si costituisce come tale e acquista la propria identità nelle relazioni che lo legano agli altri oggetti del proprio ordine: le idee sono tali in rapporto ad altre idee, le cose in rapporto ad altre cose. D'altra parte, la critica della dottrine delle idee non può significare un ritorno alla posizione parmenidea, cui in questo stesso dialogo è riservata un'analoga, radicale messa in questione. Il Parmenide, in definitiva, lascia aperti gli interrogativi che ha suscitato e si mantiene entro i limiti di un'indispensabile premessa critica all'ulteriore elaborazione filosofica di Platone.


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Dialoghi di Platone - Filebo

Le ultime riflessioni di Platone sulla vita etica (quella del singolo individuo) e sulla vita politica (quella dell'intera comunità) le troviamo nel "Filebo" e nel "Politico" : ci troviamo di fronte ad un Platone più scettico, che mette in discussione le sue stesse teorie. Si pensa che questi due dialoghi risalgano all'esperienza siracusana con il tiranno, ma c'è anche chi è del parere che questa "sfiducia" nelle sue dottrine sia dovuta solo all'età ormai avanzata: Platone, ormai vecchio, non è più entusiasta come quand'era giovane delle sue dottrine.
Il "Filebo" non è un dialogo propriamente politico e come tema è posto il su che cosa si debba intendere per vita buona ? Dunque Platone riprende un tema tipicamente socratico; si discute ancora una volta (come già nel "Gorgia" o nel "Fedone" ) se bene e piacere siano identificabili. A differenza degli altri dialoghi nel "Filebo" Platone assume posizioni più moderate: anche qui nega l'identificazione, ma arriva tuttavia ad individuare diversi tipi di piacere, non necessariamente negativi: non tutti i piaceri sono per forza accompagnati dal dolore. Ci sono anche piaceri intellettuali (ad esempio la musica o quelle conoscenze che danno un senso di piacere) che non sono così strettamente legati al dolore; sono piaceri a dimensione positiva. In poche parole quando ci sono, sono un piacere, quando non ci sono sono un dolore.
Secondo Platone bisogna privilegiare e coltivare solo certi piaceri. Una vita buona non può essere priva di piaceri (così avevamo anche detto a riguardo dell'anima: le passioni sono fondamentali). Platone delinea così la "vita mista", basandosi sull'idea che la bontà consista in un equilibrio dato dalla mescolanza di elementi diversi che si mescolano secondo misura. La vita buona, per Platone, è mescolanza di intelligenza e piacere e questa mescolanza non è casuale, ma ponderata: bisogna vedere attentamente in che misura mescolare intelligenza e piacere.
Per Platone l'intelligenza è superiore al piacere e tenderà sempre a prevalere per il semplice fatto che se si deve stabilire in che misura mescolare piacere ed intelligenza, è l'intelligenza stessa che ci indica la misura. Quindi, di per sé, l'intelligenza è maggiormente presente nella vita buona. Se si presta attenzione alla filosofia platonica, ci si accorge che ritorna spesso l'idea che la spiegazione ultima di tutto è riconducibile ad un sistema binomio, a un duplice principio. Prendiamo, ad esempio, la "Repubblica" e più precisamente la tripartizione della società: le classi in realtà sono due perché i difensori sono i futuri governanti. È la classe dei governanti che dà l'equilibrio alla sua classe e a quella dei produttori. In che cosa consisterà allora questa felicità per l'uomo? La vita migliore per l'uomo consiste, secondo Platone, in una miscela proporzionata di intelligenza e di piacere. Insomma, tutto ciò che ha proporzione e bellezza: ecco qual è la vita buona per l'uomo. E con l'educazione l'uomo imparerà a distinguere quali sono i veri piaceri e quali sono le cose che danno la vera felicità. Platone introduce poi il concetto di "anima del mondo" : il mondo delle idee abbiamo detto che è movimentato , intelligente, vitale: il mondo sensibile , come il Demiurgo lo plasma, non può che essere simile a quello intellegibile: ha un' anima sua. L'Universo è un grande essere vivente permeato interamente da un' anima. Tutto quindi è vitale, sebbene in diverse misure. L'osso è vivo perché fa parte di un essere vivente, ma anche la pietra è viva perché fa parte di questo grande essere vivente (l'Universo).
Platone insiste poi particolarmente sul finalismo ( il cavallo è nato per essere veloce, il cane per fare la guardia...) e sulla stretta parentela tra uomo e animali (gli animali sono il frutto di incarnazioni infelici delle anime nell'aldilà: ricordiamoci del mito di Er. (da cui forse i cristiani hanno copiato Lazzaro ;) )
Di tutte le incarnazioni, Platone sostiene che la peggiore sia quella dei pesci.
Platone quando osservava gli astri in cielo affermava che erano vivi proprio perché fanno parte di quest'enorme anima universale e diceva anche che erano intelligenti, perché compiono movimenti troppo perfetti per avvenire a caso.


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Dialoghi di Platone - Simposio (prima parte)

Tra amore e filosofia c'è uno stretto rapporto , tant'è che l'amore è una metafora della filosofia e questa parentela è esaminata nel "SIMPOSIO" (dal Greco sun+pino=bere insieme). Durante i simposi era nominato un simposiarca il cui compito era quello di dare un ordine alla discussione facendo passare la parola da un invitato all'altro e selezionare l'argomento da trattare.
Si sceglie di parlare dell'amore: c'è chi dice che Eros è la divinità più giovane e più bella, chi è la più vecchia in quanto forza generatrice di tutto, chi sostiene che sia una forza cosmica che domina la natura, chi suggerisce che sia un tentativo da parte di tutti gli enti finiti di eternarsi procreando, chi è del parere che sia la divinità più valorosa in quanto riesce a dominare perfino la guerra, facendo riferimento all'episodio mitico secondo il quale Ares,il dio della guerra, sarebbe innamorato di Afrodite.
Aristofane narra una storia semiseria:si tratta di un mito secondo il quale gli uomini un tempo erano tondi, sferici e doppi; questi esseri si sentivano forti e perfetti e peccarono di tracotanza. Gli dei per punirli li tagliarono a metà e per ricucirli fecero loro un nodo (l'ombelico) sulla schiena, poi lo posizionarono sulla pancia perché si ricordassero di quanto era successo ogni volta che guardavano in basso! Questi esseri sentivano il bisogno di ritrovare l'altra metà e la cercavano disperatamente. Quando la trovavano si attaccavano e non si staccavano più neanche per mangiare e così morivano di fame. Gli dei allora crearono l'atto sessuale che consentiva di trovare un appagamento da questa unione. (Quelli che in origine erano di doppio genere eguale, diventarono omosessuali, mentre gli androgini furono i progenitori degli etero.)


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Dialoghi di Platone - Simposio (seconda parte)

Questo mito originale ci spiega due cose:
1)in ogni epoca i rapporti sessuali sono sempre stati etero e omo.
2)il tentativo di ritornare ad una situazione primordiale. Notare che nel mondo greco la forma sferica è sempre vista come unità originaria perfetta.
Se si leggono accuratamente tutti i discorsi ci si accorge che ognuno di essi contiene una parte di verità:il discorso finale di Socrate non sarà nient'altro che una sintesi in cui li unisce praticamente tutti. Egli racconta di essersi una volta incontrato con una sacerdotessa (Diotima) che gli ha rivelato tutti i misteri dell'eros. Per la nascita di Afrodite, tra le varie divinità ci sono anche Poros (astuzia,furbizia) e Penia (povertà); essi, ormai ubriachi per l'eccessivo bere, si uniscono e viene così concepito Eros, che ha quindi le caratteristiche dei suoi genitori: è ignorante, povero e brutto a causa di Penia, ma sa cavarsela sempre grazie a Poros. Non è bello, ma sa andare a caccia della bellezza, sente l'amore ed è soggetto della ricerca della bellezza e dell'amore, svolge le mansioni dell'amante e non dell'amato.
Chiaramente se ricerca la bellezza significa che non la possiede, così il filosofo è privo e bisognoso del sapere (penia=povertà), ma ha anche le capacità di cercarsi e di procurarsi ciò di cui è privo (poros=astuzia, espediente).
Dato che Eros è privo di bellezza e le cose buone sono belle, manca anche di bontà, però, ciò che non è bello o buono, non è necessariamente brutto e cattivo; per Platone vi è un livello intermedio tra il sapere e l'essere ignoranti: la via di mezzo.
La posizione intermedia comunque non è un male perché è uno stimolo per arrivare: chi si trova nella posizione più bassa sa di non potersi elevare e neanche ci prova, chi è in quella più alta non si deve impegnare perché è già nella posizione ottimale, per cui si impegna e lavora solo quelli che stanno in una zona intermedia (i filosofi, che non sanno ma si sforzano di avvicinarsi al sapere). :)


Fanno festa i musulmani il venerdì
il sabato gli ebrei
la domenica i cristiani
i barbieri il lunedì :bll:

"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente.

"io non mi sento italiano, ma per la lingua ... lo sono." :)
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