La faccia sconosciuta del talento.

Il mondo dei professionisti tra gare e complessità, e più in generale l'approccio al ciclismo di ogni appassionato
Morris

La faccia sconosciuta del talento.

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……Mi gettavano bulloni
pesanti e grossi quanto noci
arrivavano come proiettili
che afferravo per la mia scommessa.
Era la vita che volevo
che mi chiamava da ragazzino.
Non potevo fuggire,
era un dono che dovevo tradurre
in gestualità conosciute.
Diventai portiere
su ghiaccio e su erba
era sempre lo stesso.
Era ancora poco
se non avessi imparato
a spingere i miei occhi
ad intorpidire quelli degli altri.
Loro dovevan scagliarmi
sfere e dischi dove io volevo.
Sono nato lì.

“Lev Jashin” da Arcadia – Poesie di genesi sportiva (di prossima pubblicazione)
di Maurizio Ricci (Morris)


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La faccia sconosciuta del talento. (Prima puntata)

Tempo fa, un gruppo di studenti mi ha particolarmente stuzzicato. Una parte di loro a difendere la linea “bacchettona” dello sportivo che deve sciogliersi nella condotta di chi porta la veste talare: quindi sacrifici, privazioni, gioventù nel cassetto, limpidezza e dribbling verso ogni scorciatoia chimica eccetera, ed una seconda, più realista, disponibile a concedere al bravo atleta, un giusto missaggio di strappi, proprio perché nel volerli e richiamarli, ci può essere la spinta proveniente dal talento e dalla sua tutela. In altre parole, una tacita legge dell’eguaglianza, accostata ad una istintiva volontà di mantenere con la massima libertà possibile, la freschezza di quel sangue blu che la natura ha donato. A ben pensarci, due correnti di pensiero che si possono scontrare ovunque, anche su generazioni non proprio giovani. Ancor più interessante, la particolarità generatrice dell’incontro, la quale, partendo dallo studio delle alchimie gravitanti sullo sport tutto, ha voluto focalizzare l’attenzione sull’unica disciplina che paga, con relativo “sputtanamento” (loro definizione), questo trend comune: il ciclismo. Un tema scelto da quei giovani, non già da me, che mi ha aperto un viale inaspettato e stimolante, in grado di non fermarsi alla vastità del corredo dopante, ma di spingersi verso quella attualità che si vede comunemente come futuribile e che, invece, ci passa sotto il naso con numeri ed entità disarmanti.
Nell’era del genetico, che c’è e si sviluppa attraverso singoli segmenti, le cui estensioni si muovono tanto sulle parti del corpo, quanto sulla cura assai più breve dei tessuti muscolari, ovviamente poco narrato per non rompere quel giocattolo che tanto bene sta, a quei dirigenti di sport così bravi a battere i politici nella corsa per la maglia nera, è ancora possibile fare differenze sul percorso dello sport di vertice? Come si spiegano, ad esempio, le diverse sopportazioni dell’acido lattico negli atleti? E qual è il fulcro che fa partire la genesi più illuminata della grande prestazione? Può bastare l’ormai vetusta ed unica spiegazione, basata sul duro lavoro di allenamenti sempre più intensi per numeri e morfologie? Domande a cui il mio sforzo, come quello di altri, può solo abbozzare, per ora, una pista logica, che si fonda su conoscenze più statistiche che gnoseologiche. Domande che mostrano l’onestà dell’ignoranza che pervade, su ogni passo di vita, il cammino di quegli esseri umani, che non sono ancora riusciti a spiegare fonti e motivi dell’oceano di istinti che li pervade da sempre e che si omettono o si celano maldestramente perché fa comodo verso fini non sempre positivi alle crescite del genere. Domande che, sul nostro tema sportivo, divengono dirompenti di fronte al fenomeno, per chi, in questi anni, ha russato sulle evidenze, che dalla Giamaica ci mostra una faccia stravolgente, non solo per quei pensieri comuni tinti di alchimie, ma pure per un approccio alla concentrazione del gesto e del conseguente scarico, mai visto nella storia dello sport. Alludo ovviamente ad Usain Bolt, l’unico vero “totem” dell’attualità di questo mondo, che non si spiega, ripeto, solo coi comuni e totali “intermezzi ricostituenti e costruenti”, ma aggiunge qualcosa da scoprire all’alveo dei confini eccelsi del talento. Un vertice, ripeto, che va altre gli aloni di sangue blu (che ci sono ancora copiosi nello sport) produttori di differenze, prima del “bisogno” di alchimie per l’eguaglianza e che mostra un valore aggiunto tipicamente autoctono, unico, pronto a farmi dire che i confini di Bob Hayes sui 100 metri e del carissimo Tommie Smith sui 200, sono stati superati. Ed entro tre anni, cementate le sue stellari consistenze nella velocità pura, potrà abbandonare la distanza più breve e, probabilmente la stessa seconda, per abbattere la storia e le realtà che fanno enorme la differenza esistente fra la competitività di uno sforzo sui 100 e quello della velocità prolungata dei 400 metri. Sarà lui, l’apparente scanzonato figlio della terra del sole di Giamaica, che spingeva la bicicletta giovanissimo fino a 100 chilometri ogni domenica e che ama il calcio fino al punto di pensare di praticarlo da professionista, ad attaccare ciò che non è mai riuscito a nessuno, scendendo sotto la barriera dei 43” sui 400 metri, per detenere contemporaneamente i record mondiali dei 100, 200 e della “gara che uccide”, i 400, appunto. E con Usain, vado a sfatare quella critica che ogni tanto mi si rivolge (non da chi mi conosce bene), di essere troppo legato agli atleti dei miei tempi, o comunque molto lontani.
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Ma andiamo a scavare un po’ ….evidenziando qualche spunto di riflessione, di cui ho parlato con quei giovani, prendendo la parte meno conosciuta del talento, quella che molti non considerano addirittura, lasciando semmai quegli echi alle coordinate del metafisico, o della volgare spiegazione che si rivolge all’ascolto, attraverso un banale: “sono credenze”.
Voglio, anzi debbo essere ottimista e, contrariamente al mio solito, provo a spezzare una lancia di speranza, nella battaglia all’omologazione di quella scienza, figlia della parte del cervello umano conosciuto, la minoranza, che si fonda quasi esclusivamente sulla matematica. Lo voglio fare guardando al genio stesso della natura, che ha creato un essere dal fisico certo forte ed adattabile, proprio perchè sovrintende su di lui un computer che, a differenza delle macchine integrate da definizione e totalmente bisognose di dati, è in grado di pensare da solo, ed i cui confini, come detto, sono solo in piccola parte conosciuti: il cervello, appunto. Di lì parte tutto, soprattutto quello che può produrre le differenze in ogni campo dell’azione umana. Un contenitore, una scatola bianca come il bianco della luce, che non è un circuito di numeri, come siamo abituati a vedere e ragionare, ma un cumulo di spie che vengon definite sensazioni: già, proprio quegli input che han fatto stellare il talento supremo di Marco Pantani. Un insieme di istinti e richiami, di voci e derivazioni, di forza e di trasmissioni.
Guardiamo l’atleta dunque.
Il medesimo che, nelle mani di una scienza forse più spregiudicata o semplicemente in linea con quello che è stato il suo uso nel corso della storia umana, viene spesso confuso come un semplice trasmettitore del fungo della forza esplosiva e della forza resistente e che può e deve essere manovrabile come un burattino al fine supremo del business, costi quel che costi. Già, ma qui la scienza cozza, anche se non lo dice, con ciò che per lei è ancora incomprensibile, il non ancora aggiustabile, ed emerge compiutamente il possesso autoctono dell’atleta, quella spinta che fa la differenza sull’orizzonte del massimo comun divisore delle alchimie, quel parsec in più che rende illuminate ed eccelse le risultanze.
Da tempo qualcuno ci vuole insegnare a calcolare le risposte sul fisico in termini di forza e potenza, di fronte alla resistenza di percorso, proprio come una gigantesca e tridimensionale legge di Ohm. Si producono addirittura delle scale, delle formule, si imbratta il tutto sulla spinta della sperimentazione chimica, come se l’atleta fosse solo una macchina, o quel computer che siamo abituati a concepire dopo l’inserimento dei dati. Si tratta, ancora una volta, di conti che dimenticano, ad esempio, aspetti di lettura sconosciuta, ma pur sempre esistenti e dimostrativi di un qualcosa che si aggiunge, che non si può determinare con una formula, di un perché che non si sa ancora spiegare, proprio come le diverse reazioni che hanno gli atleti di fronte al lattacido. Anche sulla loro capacità di recupero, nessun diagramma o calcolo è completamente convincente, o prodigo di spiegazione totale, quindi inappellabile. Su questi tasselli dell’azione atletica, non ci sono VAM o altri formulari che tengano, non ci sono calcoli possibili: è tutto da scoprire, ed ognuno è diverso dall’altro (come lo è fisicamente, almeno fino all’oggi).
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Ed è qui che si innesca la speranza, per tanti aspetti la certezza, di non poter modificare geneticamente quello che ancora non si conosce, lasciando sempre al valore della propria prestazione, un margine puramente umano alle umanissime differenze. In altre parole, anche con la salita sul gradino superiore di alchimie uguali per tutti e, comunque, basilari nel freddo e meccanico calcolo della cosiddetta “messa a punto” di base, a fare classifica, interpretazione, esibizione, grandiosità di gesta, sarà ancora una volta il patrimonio personale. Quel talento, “scherzo di natura”, che si concepisce e scolpisce nella testa, anche se noi osservatori lo vediamo per l’esteriorità delle gambe, delle braccia e del tronco, spesso anche nelle smorfie.
Eppure, qualcuno nello sport, come ho scritto e detto ancora, ci ha già studiato sopra e non si trattava dei “santoni” che tanto piacciono agli sportivi odierni, ma tecnici e divulgatori di tempi che paiono antichi, vista l’odierna frenesia. Alludo particolarmente ad un grande che, nel pieno degli anni cinquanta, si permetteva di spingere gli occhi sulle capacità che stanno nei nostri centri nervosi e sul pianeta che possono aprire. Lui, per intenderci, è uno dei pochi italiani dell’intera storia, ad essere stato invitato a svolgere conferenze ad Harvard. Si chiamava Giorgio Oberweger, ed in lui non c’era nulla, proprio nulla, di quei cromosomi che fanno scimmiottare grandezza i “papocchi” odierni, tipo i soliti nomi che impazzano nei dibattimenti sul ciclismo. Era stato un grande atleta, ma viveva e concepiva lo sport dall’unico angolo in cui è possibile farlo parlare nel bene: la passione. Certo, quella gioia intensa che riempie le tempie e che ti fa mordere le nuvole, nel lato opposto di quando sei vinto dall’acido lattico imperversante di una gara di 400hs. Ed è proprio là, dove le differenze che il mastice della fatica impone senza appello, che ci sono cromosomi non ancora spiegabili e dove, semmai, le conoscenze sono paragonabili a quella di chi, dopo aver vissuto uno stato comatoso persistente, ne ricorda alcuni echi e prova a trasmetterli agli altri raccontandoli, trovando, di converso, una stupida, ripeto, stupida, diffidenza ed incredulità. In realtà, è abbastanza, per poter dire che c’è qualcosa di grandioso in noi, ma siamo ancora enormemente piccoli per poterlo chiarire solamente un poco, alla proiezione delle nostre attuali miopie. Dal grande triestino Oberweger, amico di Ottavio Missoni, del quale fu socio nelle fondamenta di quella che poi è diventata una grande azienda d’abbigliamento, che non ha mai steso inchiostro sulle sue elaborazioni, lasciando a chi aveva la fortuna di ascoltarlo (che, successivamente le ha trasmesse a chi scrive), lo strumento più stimolante della conoscenza e dell’approfondimento, ovvero il ricordo orale, sono nati dei discepoli che non hanno fatto scuola e non si sono raccolti su una linea, facendola poi divenire dogma. Sono tecnici, osservatori che provano con l’empirismo la bontà di un percorso, studiano e meditano, s’avvolgono sugli atleti, non a blocco, ma singolarmente, donando a loro, ma imparando pure. Sono figure che spesso ignorano l’esistenza stessa di chi fu precursore orale del loro lavoro, del loro essere personaggi ai quali il sottoscritto come divulgatore s’è sempre rivolto, prendendoli ad esempio di valori ed innovazioni reali.
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Dalla loro opera, ne consegue un missaggio che si muove nell’intorno del pianeta atleta, tanto sul fisico quanto sulla mente; che lascia spazi alle autoctone ed estremamente naturali spinte, pettinando l’insieme del soggetto da aiutare, come un campione, non già perché questi lo sia, ma perché rappresenta il massimo del funzionale alla sua preparazione, nelle sue morfologie di consumazione e nel modo di vivere compiutamente quel patrimonio di significati che lascia. Per un miglioramento stesso delle successive, o a mantenerne “caldo” lo spessore d’insieme, che è determinante tanto al corpo, quanto alla mente e, incredibilmente, anche di chi lo “pettina”. Un fronte d’azione che giunge finalmente a considerare entrambe le facce del talento, da quella atletico-tecnica, classica e per troppi unica, a quella mentale, ovvero la meno conosciuta e, incredibilmente, spesso più pesante nella concretizzazione del risultato supremo. Ma ci sono voci che appartengono solo ed esclusivamente all’atleta, sono onde sulle quali egli si adagia come una forma tanto di sicurezza, quanto di concentrazione, di antidoto verso quell’ignoto che sente avverso e di fonte verso una nuova carica nervosa, pronta a prendere per mano l’impossibile e stenderlo a terra come un pomo da sottomettere. I più grandi, sono stati profeti di una innovazione, che il loro coach, se bravo e sul limite di ciò che si richiede ad un allenatore, ha accettato come un volto da osservare e, semmai, da accarezzare, ma mai da sistemare. Anche altri atleti, meno grandi, sono riusciti ad orientare evidenze su questi processi d’insieme, le cui esistenze sono state troppo spesso dimenticate, sottocelate o, addirittura considerate dannose, solo perché non capite dall’intorno tecnico e dall’osservatorio più complessivo. In realtà qui incontriamo un passo decisivo in chi opera nello sport e che si può definire, riassumendone lampi, variabili, entità e parametri, come processo decisivo, nell’elevazione di una piazzola fondamentale per il raggiungimento delle risultanze, chiamata: Autostima.


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Bridge184
Messaggi: 185
Iscritto il: sabato 11 dicembre 2010, 11:52

Re: La faccia sconosciuta del talento.

Messaggio da leggere da Bridge184 »

Scusa Morris bellissimo pezzo... ma cosa centra con il ciclismo?? :D


Pèrez
Messaggi: 4
Iscritto il: giovedì 13 gennaio 2011, 12:24

Re: La faccia sconosciuta del talento.

Messaggio da leggere da Pèrez »

Intanto me lo salvo :D ....


Morris

Re: La faccia sconosciuta del talento.

Messaggio da leggere da Morris »

Bridge184 ha scritto:Scusa Morris bellissimo pezzo... ma cosa centra con il ciclismo?? :D
Vedi Bridge, uno dei guai del ciclismo è proprio quello di sentirsi unico. Nel suo ambiente troppi sono coloro che seminano, volontariamente o involontariamente, fino a livelli di asfissia, il credo-bibbia che vede il ciclista come pedalatore e non come atleta. È un’offesa a codesta disciplina, inaccettabile, eppure…
Ogni sportivo praticante, dall’amatore non agonista al campione consacrato, spinge la propria traiettoria, su due nebulose distinguibili, ma cooperanti: il corpo, quindi articolazioni, tessuti ecc. e la mente. Quest’ultima, è di gran lunga la meno conosciuta.
Il talento, passa trasversalmente su entrambe le nebulose, ed è determinante per le risultanze in maniera assai maggioritaria. Possiede voci che, superficialmente, si sentono quasi interamente all’interno dell’insieme del corpo e si discute e disquisisce troppo su quest’unico parametro. Ma è all’interno della testa che sgorgano gli stimoli eccellenti che fanno le differenze più sofisticate e decisive.
Ora, racchiudere uno studio già raro, “sull’altro”, che nel linguaggio di un forum del web, definiamo convenzionalmente con la sigla “OT”, significava di fatto escludere il ciclismo da un mondo che lo comprende di diritto. Ed a ciò va aggiunta la personale convinzione che nella divulgazione dello sport, proprio il ciclismo abbia più bisogno di sgrezzarsi da quelle miopie, che sono la fonte principale delle sue disgrazie. E non mi pare che su questa prima puntata, perché tale è, i riferimenti allo sport del pedale, siano mancati.
Ciao!


KELLY1
Messaggi: 233
Iscritto il: martedì 28 dicembre 2010, 16:34

Re: La faccia sconosciuta del talento.

Messaggio da leggere da KELLY1 »

in parole povere ma veloci un ciclista è 51% testa e 49% gambe se vuoi essere un grande, l'inverso non porta lontano .


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