Metto ora, sennò poi mi scordo. (Me li ero recuperati tempo fa, ecco perché son tutti qui. Li misi coi titoli originali, potete giocare a mettere la versione italiana. Mi ricordo che mi ammazzavo/dilettavo per trovare i collegamenti quotidiani con la corsa... Alcuni di questi 21 li ritroveremo nei 100 - più qualcuno - film della mia vita che vi pubblicherò più in là)
0 - Les Parents Terribles (Jean Cocteau, 1948)
Vai al cine, vacci tu, cantava Conte quando parlava di Bartali e del Tour, e se si parla di Bartali e del Tour ci si riferisce fatalmente al 1948. Vai al cine, a vedere cosa? Les Parents Terribles, per esempio, una delle uscite più straordinarie della stagione. Jean Cocteau l'aveva scritto tanti anni prima per non farne un film ma un'opera teatrale, ma poi, chi lo sa, dopo un'invasione subìta, forse c'è più necessità di lavorare e si va a ripescare nel passato pur di... Cocteau ripesca. Ripesca il testo, ripesca un attore che era stato suo amante (Jean Marais) e che sarebbe troppo anziano per la parte di un giovanotto, Michel, innamorato della bella Madeleine. Ma la madre di Michel è a sua volta innamorata di lui (sì, il figlio); il padre è innamorato della ragazza. Del resto se vengono definiti parenti terribili un motivo ci sarà. 97' di cinismo e melodramma sovrastati da Edipo. Finirà in tragedia, anzi doppia tragedia carpiata con avvitamento della trama. Esecuzione perfetta.
1 - Toute une vie (Claude Lelouch, 1974)
Tutta una vita. Magari davanti agli occhi, in un solo momento: quale, quello in cui avrai per l'ultima volta attaccato il numero del Tour, o quando avrai preso il via per the last waltz, sul trampolino di Rotterdam? O forse è un luogo comune, in fondo qualcuno potrebbe dire che ci vuole un'altra vita per rivedersi la prima. (O un'altra carriera per rivivere le precedenti?) A meno che la rappresentazione di ciò che è stato reale sia l'unico mezzo attraverso cui si può fruire del passato: in tal caso, può bastare anche un film, e Claude Lelouch ne è stato sempre convinto, a dire il vero. E anche stavolta ci mette dentro tutto, spezzoni di storia (di guerra) reale attraverso i documentari d'epoca, e storie private di persone comuni che fanno incontri straordinari (lei amerà un infedele Gilbert Bécaud nel ruolo di se stesso: come se una rockstar entrasse nella vita di un ciclista, per dire), ma finiranno con l'incontrarsi, Sarah e Michel (Marthe Keller e André Dussollier), nella consueta ronde amorosa che dà il senso a tutto. Barocco come al solito, eccessivo, mai piacerà a tutti, Lelouch. Anche Armstrong, se vogliamo.
2 - Rosetta (Jean-Pierre e Luc Dardenne, 1999)
Non siamo nel cinema francese ma quasi; nessun problema, anche il Tour oggi non è in Francia ma quasi. Il Belgio, giardino d'Europa, o forse no, forse meno di quanto siamo portati a pensare. Ogni centro ha le sue periferie, Bruxelles la possiamo forse considerare periferia di Parigi? Rosetta è la periferia della periferia di Bruxelles. I fratelli Dardenne le hanno dato il volto stravolto di Emilie Dequenne, e l'hanno seguita per tutto il film, da dietro, con insistito, fastidioso uso della camera a spalla: se vuoi entrare nel suo mondo, il meno che ti possa capitare è il mal di stomaco dato dalle immagini in continuo, nervoso tremolare. Forma è sostanza. Rosetta è solo una ragazza, ha i suoi problemi, fatica a vivere. È sublime verismo che irrompe sulla pellicola, Rosetta è il risultato della crisi economica 10 anni prima della crisi economica, quando sembrava crescita anche se produceva strapiombi di povertà. È il compromesso vigliacco che tutti prima o poi abbiamo sottoscritto, è la fuga impossibile dalle proprie responsabilità, è la frustrazione di chi ha sempre conosciuto solo i margini e continua a stare al mondo per inerzia. È la coscienza di chi sa che è facile cadere con la bicicletta, molto più facile che vincere, eppure non è che non si corre più. A volte arriva il colpo che cambia la vita o la carriera; quasi mai, però. E il massimo forse è un'esistenza tranquilla: Rosetta, in fondo, sogna di fare il gregario.
3 - Tout va bien (Jean-Luc Godard, 1972)
Un distributore italiano ardito aggiunse al titolo un "Crepa padrone" che in quell'epoca qualcuno avrà pure trovato troppo reazionario. Altri tempi, erano in molti a studiare il marxismo, operai e registi, Godard lo applicò ai suoi verbosi film e alle storie che narrava. Come quella d'amore tra Montand e una Jane Fonda in piena fase pasionaria (seguiva alla fase lolita e precedette la fase aerobica). L'amore reinterpretato alla luce delle leggi economiche. Che poi governano tutto, anche lo stare in un gruppo. E in questa prospettiva, gli ultimi saranno sempre ultimi o c'è la possibilità di un riscatto? La lotta di classe è possibile senza una coscienza di classe? Gli operai che occupano la fabbrica e rapiscono i due innamorati (che nel film sono un regista e una giornalista e sono lì per il loro lavoro) oltre al padrone della fabbrica stessa, conoscono bene la risposta. Non sono per lo sciopero bianco, loro, del resto non fanno ciclismo. Hanno la rivoluzione nel dna e la disillusione nel destino. E trovano la comprensione e il rispetto che nessuno si è mai guadagnato tenendo sempre la testa abbassata. Perché poi, spesso non è la ribellione in sé a dare senso a se stessa, quanto il rendersi conto che la si può (ancora) praticare. Una ventata salutare, tra tanto pedalare.
4 - L'Enfer (Claude Chabrol, 1993)
L'inferno esiste? Sicuramente sì, che poi sia quello cattolico di Dante o quello burocratico di Dylan Dog, lo scopriremo solo non vivendo. Oppure c'è l'inferno in terra, quello che prende mille colorazioni e mille declinazioni, quello che può essere un amore che finisce o un dolore che si fa reale, la perdita di un lavoro o di se stessi. Qualcuno sostiene pure che l'inferno si materializzi in forma di strade di pietra nella provincia francese. Claude Chabrol è il cantore di tutto ciò che non è Parigi, nessuno come lui ha tratteggiato con grazia il tedio a morte del vivere in provincia. Dietro la facciata affascinante, l'orrore. Una bella coppia, un bel lavoro (hanno un hotel in riva a un lago), un bellissimo posto: l'inferno, appunto. Perché quando possiedi qualcosa di troppo bello, il rischio di iniziare a chiederti se te lo meriti è reale, il dubbio può insinuarsi nella mente. Lavorare in silenzio, minare le tue già vacillanti certezze, porti brutalmente di fronte al confronto tra vita reale e gelosia immaginaria. Quando possiedi qualcosa di troppo bello, è già tanto se non lo rovinerai, ed Emmanuelle Béart a 30 anni è qualcosa di incomparabilmente bello. Il povero François Cluzet ne esce con le ossa rotte. Il cervello in liquefazione. La tragedia pervicacemente perseguita e realizzata: fine di ogni gioco. Perché la vita reale (o cinematografica?) non è come quella sportiva; dopo l'inferno non sempre ci si può rimettere a pedalare il giorno dopo. Spesso dopo l'inferno c'è l'abisso.
5 - L'Homme du Train (Patrice Leconte, 2002)
Nell'immaginario collettivo, l'inizio di una nuova vita si può accompagnare all'atto di prendere un treno. Non si pensa molto spesso che anche lo scendere (dove?) da quel treno può essere significativo quanto il salirci. Johnny Hallyday arriva (col treno, appunto) in una cittadina di provincia col progetto di mettere a segno una rapina, incontra un vecchio professore in disarmo (interpretato da Jean Rochefort), i due fanno amicizia. Lo dicevano anche gli antichi adagi latini, che si vuol essere sempre ciò che non si è: è una questione di stimoli, tutto sommato: la vita più avventurosa può diventare immensamente noiosa, a lungo andare. Il cambiamento, spesso un salto nel vuoto, è anche l'unica via per rigenerarsi, per ritrovare se stessi, l'antico smalto, la voglia di andare avanti. Per riscoprirsi vincenti, anche solo per un attimo. Chissà se la rapina a lungo progettata da Hallyday (rockstar prestata talvolta - con esiti altalenanti - al cinema) andrà a buon fine. Chissà se l'intervento chirurgico del vecchio Rochefort si risolverà in un successo. Chissà se sarà possibile ipotizzare un futuro immaginario in cui le due vite saranno invertite; in cui l'uomo del treno la smetterà di rischiare l'osso del collo: ma si può sfuggire, poi, alla propria natura?
6 - Les Quatre-Cents Coups (François Truffaut, 1959)
Chi è nato in prossimità della costa, o ha avuto modo di frequentare i litorali sin da piccolissimo, avrà sempre un gap nella vita: non potrà misurare l'effetto che dà il vedere per la prima volta il mare. Antoine Doinel invece quel momento se lo ricorderà per sempre, insieme al senso di sublime sopraffazione che aveva accompagnato il suo primo, inatteso incontro con quella enorme massa d'acqua. Lo consideravano una testa calda, un mezzo disadattato, un delinquentello buono per il riformatorio. A 14 anni Antoine Doinel era la pecora nera del gruppo. Poco amato dai genitori, la sua foga adolescenziale si risolveva in grossi guai per lui, respinto e messo all'indice da tutti. Eppure sapeva anche piangere. Amava il cinema e venerava Honoré de Balzac: quanto lontano dalla realtà possono portare le prime impressioni su una persona? Antoine Doinel, figlio di François Truffaut e fratello di Jean-Pierre Léaud, non morirà mai. Ha vissuto attraverso 5 film, in quella che forse è la saga più straordinaria della storia della celluloide, è cresciuto insieme al suo interprete (Léaud, appunto), che gli ha dato molto più di un'anima. Non si può non tifare per lui, non si può non innamorarsi della sua irruenza intellettuale. E non si può restare indifferenti di fronte a quella corsa verso il mare, finale meraviglioso di un film meraviglioso di un autore meraviglioso.
7 - Le Doulos (Jean-Pierre Melville, 1962)
Regolamenti di conti: roba da noir. O da polar, se vogliamo declinare il genere compiutamente alla francese. Serge Reggiani, attore dalla faccia triste e dalle origini italiane, è per Melville un gangster che, appena uscito da galera, va a fare il giro degli amici e dei nemici. E nel separare il grano dal loglio, perde di vista la realtà e si convince che anche il suo delfino lo tradisce. E invece Silien-Belmondo era un amico leale, ma il gangster (si chiama Maur) se ne renderà conto quando sarà troppo tardi per tutti. Non c'è da scandalizzarsi se viene rivelato il finale di un noir (anzi, di un polar): in realtà non si svela niente, visto che non ce n'è stato uno che sia finito bene, la tragedia è sempre incombente su uomini piccoli resi ancora più piccoli dalla propria meschinità, dai propri errori e anche dallo smisurato orgoglio che impedisce loro di ammetterli. Il noir (anzi, il polar) ha la tragedia nel dna, e non contiene soluzione a questo precipitare verso l'inesorabile. E quando parla di regolamenti di conti, possiamo star certi che andrà fino in fondo, senza sconti per nessuno: un regolamento di conti è una cosa seria. E se qualcuno pensa che possa essere indultato con una multa di 200 franchi, non ha capito niente di come vanno le cose nel mondo degli uomini duri: un mondo in cui un colpevole non chiederà mai scusa.
8 - La Veuve Couderc (Pierre Granier-Deferre, 1971)
La fuga può essere di due tipi. Organizzata, e spesso realizzata con l'aiuto di qualche complice/compagno. Oppure improvvisata, e in tal caso ci si deve affidare alla buona sorte e al buon cuore di chi si incontra per strada: collaborerà, non collaborerà? La vedova Couderc non ebbe dubbi: collaborò. Quando si trovò tra i piedi l'evaso, proveniente dalla Cayenna, lo aiutò, gli diede un lavoro nella sua fattoria, e gli diede anche il suo cuore. Del resto la signora, già avanti con gli anni (e interpretata da una struggente Simone Signoret), aveva a che fare con un fuggiasco col volto di Alain Delon nel fiore della sua bellezza matura. Divennero amanti, diedero scandalo, l'anarchico Delon mirava solo alla proprietà, sospettavano i cognati della vedova (che alla proprietà ambivano di sicuro). E lo denunciarono, preparando il terreno alla trappola mortale ordita dalla polizia. Il finale è triste, come nella maggior parte delle storie di fughe: prima o dopo, in un modo o nell'altro, si viene ripresi. O perlomeno, questo nella visione pessimistica di Simenon, dal cui romanzo Granier-Deferre trasse un film potente, secco, asciutto nel suo essere (anche) un melodramma. Si resta con l'amaro in bocca, a fine visione. E con la speranza che al prossimo fuggitivo la fortuna sorrida un po' di più.
9 - Touchez pas au Grisbi (Jacques Becker, 1954)
Quando sei vecchio ogni errore costa il doppio. Perché quando sbagli da giovane puoi dire di avere tanto tempo per rimediare. Quando sbagli da vecchio, spesso non avrai un'altra chance per far meglio (o per cancellare l'errore precedente). O per partecipare a un altro Tour de France l'anno prossimo, nel caso tu sia uscito di classifica troppo presto. Ecco: sbagliare l'uscita di scena, che iattura! Jean Gabin, in arte Max, la sua uscita di scena la sogna spettacolare: un ultimo colpo, 50 chili d'oro per svoltare definitivamente, lasciare la malavita e darsi a tutti gli spassi possibili. Ma per fare un colpo del genere occorre essere in più d'uno, e se uno dei compagni d'azione non sa tenere la bocca ben cucita, finisce che il boss nemico (interpretato dal grande Lino Ventura) rapisce questo complice di Max e chiede al vecchio gangster il risultato della rapina dei lingotti d'oro: il bottino, in pratica. Il grisbi, come dicono in Francia (e sarà ovviamente scontro mortale tra le due bande rivali). Si sarebbe potuto ritirare prima di finire nei guai, il vecchio Max? Cosa l'ha tenuto in pista, aveva davvero bisogno di quell'oro per cambiare definitivamente vita? O aveva solo la necessità di sapere di essere ancora vivo, rispettato, di contare ancora qualcosa? Quanto si può sentire onnipotente un uomo, maschio, macho, sempre abituato a comandare anche nelle piccole cose? Al punto forse da non vedere più i propri limiti, o da non capire che quando sei vecchio, è facilissimo che trovi un giovane che ti mette nel sacco, prima o poi. O che ripeschi un antico nemico che fa di tutto per mandare all'aria l'intero tutto il tuo lavoro. Non è nemmeno nulla di scandaloso: il ciclo della vita prevede proprio questo: il nuovo rimpiazza il vecchio. Sia che esso abbia l'aria stanca e la faccia sconfitta di Gabin nelle inquadrature perfettamente crudeli di Becker; sia che abbia l'espressione di un campione dello sport.
10 - Haute Tension (Alexandre Aja, 2003)
A suo modo, Haute Tension è un film perfetto. Certo, è un horror, non si misurerà perciò con le grandi pellicole della storia del cinema, ma nell'ambito del suo genere è un punto di riferimento. Già alla prima scena il senso d'angoscia ti pervade, a vedere quelle due ragazze giovani e belle e spensierate che se ne vanno in vacanza in campagna cantando una canzone dei Ricchi e Poveri, e ad immaginare la brutta avventura che dovranno vivere. Poi la realtà (del film) è peggio, nel senso che l'avventura (col serial killer di turno) è veramente tremenda. Splatter a tutto spiano, paura vivida, sangue grondante dai corpi e dagli armadi, l'incubo che diventa realtà, la fuga, come se poi potesse esistere una fuga dai propri fantasmi: quanto si può convivere, con questi fantasmi, prima di farsene schiacciare? Il regista è giovane, all'epoca proprio un novellino: scrisse e Girò questo film che aveva poco più di vent'anni, poi, come ogni grande exploit giovanile che si rispetti, le difficoltà vengono dopo: una carriera discontinua; il tentativo di fare il grande salto (l'America, in questo caso), forse snaturando le proprie caratteristiche. E il film perfetto non viene più. Chissà se Aja ha già un futuro alle spalle; o se un giorno o l'altro ritornerà quello del 2004... volevamo dire del 2003.
11 - La Piscine (Jacques Deray, 1968)
Le mollezze dell'estate, che spettacolo. Quando il sole ti spacca in quattro, o sei davanti alla tv e a una sonnolenta tappa del Tour de France; o sei sul bordo di una piscina a riflettere sul senso della vita. Difficile trovare di meglio, francamente. Alain Delon lo sa, e dietro l'aura di scrittore un po' maledetto che ci ha avuto la malattia che l'ha frenato, aspetta l'ispirazione crogiolandosi al sole della Costa Azzurra (e lanciando col suo giacere un'iconografia tuttora vivida). Il tutto, ovviamente allietato dalla presenza della padrona di casa, una Romy Schneider che di fatto lo mantiene, e per la quale ogni aggettivo avrebbe come unica funzione quello di sminuirne la bravura e la bellezza. Per sconvolgere questo idillio, non resta che introdurre in scena il più conturbante simbolo degli anni '60, la prima donna a mostrare un nudo frontale in un film d'autore (Blow Up di Antonioni), la fanciulla angelica che produceva i mugolii di Je t'aime moi non plus per il suo Gainsbourg. Jane Birkin, che acerba arriva col padre e sconvolge ogni equilibrio. A volte, l'imprevisto che ribalta ogni cosa si verifica anche nelle migliori e più routinarie famiglie. Altre volte purtroppo no; in quei casi, non resta che pedalare. Senza euforia, fino alla fine della giornata.
12 - Un Homme de Têtes (Georges Méliès, 1898)
La testa si può usare in tanti modi, o anche non usarla, volendo. Si può completamente perderla, in determinati frangenti della vita o dell'arte. Oppure la si può utilizzare per colpire. Épater le bourgeois, urlavano i Poeti Maledetti, divinità insostituibili della letteratura. In quegli stessi anni Georges Méliès, che si riteneva un artigiano, al limite un illusionista, ma non certo un artista, molto più umilmente si mise in testa di colpire tutti, non solo i borghesi. Colpire nel senso di stupire, impressionare, sconvolgere per sempre. Cambiare l'immaginario popolare dell'intera umanità. Il cinema non aveva una tradizione, né regole codificate, né professionalità consolidate. Emetteva i primi vagiti e ogni sua cosa andava inventata. Méliès, protagonista assoluto di quella fantasmagorica fin de siècle, demiurgo della fantascienza (Viaggio nella luna!), è in realtà l'autore di Avatar e il creatore primo del cinema tridimensionale a cui oggi ci accostiamo con meraviglia. Ma nessuna sensazione filmica potrà più farci vivere quello che videro quegli occhi vergini, di quegli spettatori sprovveduti, di fronte alle diavolerie del primo genio della celluloide. Forse il più grande, più di Kubrick e Fellini messi insieme, perché fu il primo ad aprire praterie che sarebbero poi state battute da tutti gli autori venuti dopo, il primo a immaginarsi l'inimmaginabile (per dirne una: il montaggio!), e a realizzarlo con le sue sole mani e la sua testa pensante. Testa con cui qui Méliès gioca, felice di stupire, primo inventore degli effetti speciali al cinema, già alla fine dell'800. Una mente superiore. Una gioia per gli occhi questo film (uno dei tantissimi che realizzò). 50" di magia. Un regalo per tutti noi.
13 - Ressources Humaines (Laurent Cantet, 2000)
Generazioni a confronto. Viene sempre il momento in cui il giovane rampante deve mandare in pensione il veterano, senza troppi riguardi, magari, senza il dovuto rispetto, mettendo al primo posto gli obiettivi posti e sottilineati dalla competitività su cui si basano le nostre attività. Quando sui due fronti si trovano un figlio e un padre, il dramma umano diventa terribilmente concreto e ci lascia a specchiarci nelle nostre certezze scricchiolanti. Aveva già capito tutto Laurent Cantet, con un po' di anni d'anticipo (non che ci volesse tanto, a dire il vero, ma la questione è anche saper rappresentare la realtà presente e futuristica): un capitalismo non mediato da massicce dosi di solidarietà sociale, è destinato al collasso, e a prefigurare un'inconsapevole lotta tra generazioni, appunto, che disgrega la società occidentale. Cantet, probabilmente l'esponente migliore dell'ultimo decennio di cinema francese, sa andare al cuore del problema. Con sguardo verista, senza vezzi e senza lazzi, con attori presi "dalla strada" (o dalla fabbrica?), senza dover condire la storia degli uomini con inutili (ai nostri fini) orpelli amorosi, inquadrando le cose reali e parlando di operai senza vergogna. Un'opera, un genere se vogliamo, sicuramente un'attitudine che manca da troppo al cinema italiano.
14 - L'Air de Paris (Marcel Carné, 1954)
Il pigmalione è una figura molto presente nel cinema di ogni genere. Colui che cresce un giovane "delfino", lo svezza, rivive in lui i propri sogni e le proprie ambizioni (in genere il pigmalione è un uomo sconfitto dalla vita) e poi viene quasi sempre abbandonato sul più bello, quando il pivello di turno spicca il volo per traguardi più importanti; e quando, tra la riconoscenza e l'ambizione, sceglie inevitabilmente la seconda opzione: del resto, c'è mai stato un giovane rampante che abbia rinunciato al proprio cammino per onorare fino in fondo il vecchio arnese che l'ha (idealmente) messo al mondo? Il pigmalione però lo mette in conto; mette in conto anche di dover fare gli straordinari per riparare agli errori commessi per foga o inesperienza dal giovanotto. Jean Gabin, quanto a vecchio arnese, è una figura quasi paradigmatica. Un ruolo che calza a pennello all'apparentemente burbero ma profondamente buono protagonista di questa pellicola in cui Carné cala il grande attore nell'ambiente di una palestra di boxe, e lo mette alle prese con un biondino promettente ma più pronto a innamorarsi che a perseguire titoli sportivi. Per una volta, però, questa storia ha un finale a sorpresa: il giovane si ritrova lasciato dal suo amore e torna tra le capienti braccia del vecchio. Ma come, e tutta la tiritera un po' patetica di qualche rigo fa? La riprova, se ce ne fosse bisogno, che lo sport sa prevedere bene i suoi colpi di scena: quasi più che il cinema.
15 - L'Eau Froide (Olivier Assayas, 1994)
Dall'incomprensibile mondo degli adulti non c'è che una cosa da fare: fuggire. Quella fuga universalmente riconosciuta come un territorio libero e selvaggio, rischioso e salvifico, un archetipo che ha attraversato il cinema e che a ben pensarci è stato codificato proprio da alcuni sommi autori della Nouvelle Vague (di Truffaut e del suo giovane Doinel abbiamo già parlato in questa rubrica). Anche Assayas, pescando molto nella propria biografia personale, ci parla di giovani che si sentono fuori posto dappertutto e cercano una loro dimensione lontano dalle regole di una società sclerotizzata in cui nessuno osa, nessuno rischia un passo in più verso l'ignoto, in cui nessuno fa lo sforzo di provare a capire le persone che girano intorno. Se ne vanno via i due adolescenti, verso chissà dove, ma non importa, perché quello che più importa è il come, e la fuga cambia spesso una vita, di sicuro cambia le prospettive con cui guardiamo al mondo. Una splendida, giovanissima Virginie Ledoyen; una lunga indimenticabile scena di una festa pirata, rock d'epoca (l'ambientazione è del '72) a tutto andare e ballo fino allo sfinimento. Tutto intorno, un film definitivamente liberatorio, se mai ce n'è stato uno.
16 - Les Choses de la Vie (Claude Sautet, 1970)
Le cose della vita sono un po' così. A volte aspetti e aspetti e aspetti per realizzare un progetto, per prendere una decisione, per fare finalmente una cosa che andava fatta già da tanto tempo; e quando dopo mille indugi ti metti in azione, arriva l'imprevisto che fa saltare tutto all'aria. Il colpo di scena che riavvolge il nastro, l'intoppo che non ci voleva, e che lascia lo spettatore con in bocca l'amaro di un lieto fine atteso, sospirato e brutalmente negato. Le cose della vita sono indirizzate da particolari infinitamente trascurabili, come una catena che non ingrana bene, per esempio; e non è detto che sia cosa da tutti saper giocare col destino e fare partita patta (di vincere non se ne parla proprio). Claude Sautet, il regista degli amici, delle mogli e (affettuosamente) delle "altre", incappa in un romanzo (di Paul Guimard) che lo affascina, e ne trae un film di maestoso disperato romanticismo. Le "altre" qui sono incarnate dal volto migliore di tanto del miglior cinema d'oltralpe, Romy Schneider, affascinante come nessuna. Anzi sì, come una, che continua a ronzare nella testa e nei pensieri ormai quasi perduti di un Michel Piccoli allo sbando: quest'una è la moglie (interpretata da Lea Massari), abbandonata a suo tempo ma mai del tutto, e verso la quale c'è una forza centrifuga che spinge il protagonista. Il quale alla fine la sua scelta la farà, dopo tanto tormento: tornare dalla moglie, lasciare l'amante. Scriverle una lettera d'addio, e poi - eccolo il destino infame - schiantarsi tra le lamiere di una splendida Giulietta Sprint del '59. Ci penserà la moglie a non far mai avere a Romy-Hélène la lettera che le avrebbe straziato ancor più il cuore. Una vittoria non consumata, l'onore delle armi all'avversaria inconsapevole: anche in una struggente storia d'amore ci può essere spazio per il fair play. L'importante è non invocarlo, se è il caso vien da sé; nei film di Sautet è sempre il caso. Ma del resto, sono - questi film - alcuni dei luoghi più civili e vivibili della storia contemporanea.
17 - La Grande Bouffe (Marco Ferreri, 1973)
Essì, c'è anche un italiano in questa nostra rassegna che ormai volge alla conclusione. Ma non si può chiudere una carrellata sul cinema francese senza una citazione per Marco Ferreri, vero protagonista transnazionale del percorso di celluloide negli anni '60 e '70 (adorato e operativo soprattutto oltralpe), e in grado di corrodere fino alla scomparsa (avvenuta nel '97). La storia che qui Ferreri (con la coda di diavolo di Rafael Azcona, suo sceneggiatore di fiducia) ci narra è tanto semplice quanto assurda: quattro amici (si chiamano casualmente Ugo, Marcello, Michel e Philippe) si rinchiudono in una villa parigina per un week-end allo scopo di mangiare tanto da scoppiare. Un suicidio di matrice gastronomica, insomma, in un tripudio di rutti ed emanazioni gassose retrosfiatanti (sì, insomma: scorregge!) che scandalizzò il mondo all'epoca; e con l'accompagnamento di donnine a pagamento tenute però lì come soprammobili mentre la grande abbuffata procede. Che senso ha tutto ciò? Nessuno. Chi mai - sano di mente - farebbe quello che Tognazzi (ovazione), Mastroianni, Piccoli, Noiret (grandissimi) fanno in questo film? Oddio, a pensarci un secondo, ma proprio un secondo in più, a qualcuno potrebbe sorgere il dubbio che la crescita (economica) perenne (con conseguente sfruttamento intensivo delle risorse) sia in realtà un'utopia destinata a sopprimere chi la persegue; oppure che la società dei consumi, tra l'altro avvitata in un decadimento etico, sia destinata a implodere fragorosamente; oppure che la vera natura dell'uomo sia di saziare i suoi istinti primordiali incurante delle conseguenze su se stesso; oppure che nemmeno la ragione, laddove arrivi a illuminare la scena, basti a invertire il moto del sistema; o ancora, che sopperire alla qualità con la quantità (ciò che fa l'uomo consumatore, che poi a ben pensarci è anche ciò che fa il tossicodipendente) sia solo un pio palliativo, in attesa dell'inevitabile tracollo. Un po' come - di metafora in metafora da Ferreri si arriva a coprire lo scibile umano - quando possiedi una montagna e pure la ragionevole certezza che non ti servirà a niente, anziché chiederti come sia possibile che una montagna non basti, ti limiti a duplicarla. Quante volte si può duplicare una montagna? A che prezzo?
18 - Jules et Jim (François Truffaut, 1962)
"Il tema dell'amicizia virile" era un amato e abusato luogo comune della critica cinematografica per trovare un senso anche a film (massimamente western) in cui oltre allo sparare agli indiani c'era poco. Del resto, a ben pensarci, sono poche le pellicole da cui non emerga almeno un'amicizia virile: e il tema sopracitato, mal che vada, viene sempre fuori anche in mancanza di altri argomenti. In realtà, poi, va detto che spesso quest'amicizia virile era una perifrasi, un non dire per dire, un'allusione a tensioni e pulsioni omoerotiche che la Hollywood classica, quella del codice Hays, non poteva concepire applicate a John Wayne o Henry Fonda (né l'avrebbero mai personalmente accettato John Wayne o Henry Fonda, ma questa è un'altra storia): l'eroe di una storia da uomini non poteva concedersi determinate derive, e Ang Lee era ancora lontano quando, all'alba dei '60, François Truffaut sviscerò in maniera quantomeno singolare questo tema. Ci mise una Jeanne Moreau splendente, tra i due amici divisi da una diversa nazionalità e dalla Prima Guerra Mondiale, ma uniti dall'amore per lei e soprattutto dal ricordo di essere stati giovani e spensierati insieme. Il titolo reca i nomi di Jules e di Jim, ma in realtà il vero centro di gravità del film è lei, Catherine: un traguardo tanto prezioso da far sì che nessuno dei due amici voglia rinunciare a lei e al contempo a se stesso e al sentimento per l'altro: dovrebbero essere rivali, ma si scoprono ancora più uniti al cospetto di lei. Ne viene fuori un triangolo perfetto, solare, rivoluzionario, in cui tutti e tre i protagonisti sono già gratificati dal fatto di esserci, di far parte di quel trio delle meraviglie. Amore e amicizia o amore è amicizia?. Per il trionfo dell'ego, o per schiacciare un avversario, ci sarà sempre tempo.
19 - Smoking-No Smoking (Alain Resnais, 1993)
Quando una grande avventura volge al termine, è inevitabile guardarsi indietro e provare a riconoscere gli snodi fondamentali che l'hanno interessata. Capire come sarebbero potute andare le cose se anziché essere usciti di casa alle 8 fossimo usciti alle 8.05; immaginarsi l'alternativa se avessimo incontrato una persona piuttosto che un'altra. Esplorare l'ipotesi che una determinata classifica potesse essere diversa se ci fossimo mossi 20 km prima anziché 20 km dopo. Le infinite variazioni e possibilità di un'esistenza, in pratica: nell'attesa che computer e modelli matematici ci predicano con precisione quel che sarà se ci comportiamo in un modo o in un altro (il futuro addomesticato e disinnescato), nella vecchia era c'è ancora qualcuno che ai numeri preferisce il racconto. Alain Resnais ci aveva già provato in anni giovanili (L'anno scorso a Marienbad), a elucubrare sul passato, sul futuro e sulle loro declinazioni. In età avanzata, l'autore riapre il vecchio libro del tempo, e si ispira per creare questo dittico, un gioiellino praticamente unico nel suo genere, un meccanismo a orologeria che, diviso in due film, va fino in fondo a ogni bivio (ecco il paragone: le storie a bivi di Topolino di qualche anno fa!), nell'una e nell'altra direzione. Aiutato, nell'opera, da due attori in stato di grazia e pronti a interpretare una moltitudine di ruoli (Sabine Azéma, sempre fantastica, e Pierre Arditi): e perché poi, alla fine, sono importantissimi, loro, gli attori: se un copione eccezionale viene recitato da cani, il film viene una schifezza. Per fortuna che ci ha pensato Resnais, e che si può sempre tornare indietro al bivio precedente per vedere cosa succede scegliendo un'altra strada...
20 - Les Rendez-vous de Paris (Eric Rohmer, 1995)
Si finisce, e quando possibile è bene finire in scioltezza. Con leggerezza: chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, e subito pronti a immergersi nel prossimo progetto. Ammesso che un progetto ci sia e che tutto non sia frutto del semplice caso. Il caso, motore pulsante del cinema di Rohmer, ma anche di mille storie che, tra un colpo di scena e l'altro, di cinematografico avrebbero molto (mai vista una corsa ciclistica, per esempio?), a patto di trovare qualcuno che le sappia raccontare col tono giusto: con la levità di tocco propria del grande autore purtroppo scomparso all'inizio di quest'anno. Un tocco che Rohmer ha imposto attraverso il suo strano modo di fare film, spesso semplici capitoli di un libro immaginato (diresse 6 film che sviluppavano il tema "Sei racconti morali", poi altri 6 incentrati su "Commedie e proverbi", quindi, già settantenne, i 4 magnifici "Racconti delle quattro stagioni"). Qui, in "libera uscita", il vecchio Eric ci regala un film che racconta di incontri più o meno casuali - ma anche più o meno cercati - di persone che hanno a che fare con l'amore: e anche se paiono sospese in un tempo di fiaba, ci aprono nell'anima improvvisi e profondi squarci di realismo in cui siamo costretti a guardare (e a vedere noi stessi); una boccata d'aria fresca, attraverso una semplicità disarmante e una acutezza dissacrante. E tutt'intorno Parigi, stordente, intrigante, complice; lei, titoli di testa e titoli di coda di qualsiasi cosa possa avere a che fare con la Francia. La Ville Lumière: nata per stare in passerella.