Caro Felice,
come sempre è molto gratificante confrontarsi con te e non rifuggo le questioni che sollevi, anche tirando in ballo concetti e discussioni di qualche anno fa.
Da dove nasceva il famoso "embè?" che tu citi? Forse da una sorta di pessimismo cosmico, che permeava quello scritto come continua a permeare la mia visione del mondo. Partiamo da una domanda: riteniamo che la tendenza a cercare la scorciatoia sia debellabile, nelle cose dell'uomo? Io non credo. Da qui prende forma il mio pensiero sull'argomento.
Come si scriveva qualche giorno fa su questo forum, il ciclismo non è un lavoro per noi, ma una passione. E nel momento in cui non palpitiamo più per questa passione, possiamo passare ad altro, non c'è nulla e nessuno che ci obblighi a continuare a guardare le corse. Già c'è un lavoro che ci incatena per 40 anni, e le responsabilità di ogni giorno, e i crescenti problemi della vita quotidiana. La passione dovrebbe essere un'oasi in cui rifugiarsi, attraverso cui vivere la catarsi della vittoria, noi che esseri minuscoli negli ingranaggi del mondo non avremo mai la possibilità di vincere come si vincerebbe un Tour de France.
Al di là di ogni valutazione, il ciclismo è, per il 99,9% di noi, un giocattolo. Se non ci diverte, passeremo a un altro giocattolo. Anni fa parlavo spesso della dicotomia tra problema e percezione del problema stesso, e anche se tu dici che la "linea" di Cicloweb, quella dell'"embé?" ha fallito, io ti ribatto che invece la realtà ci dice il contrario: anni di "incrementalismo" (visto che siamo in tema di vecchi concetti...) ci portano oggi, al cospetto di quella che potrebbe essere l'impresa più bella dell'anno (insieme a un altro paio, via), a sospettare su tutta la linea. La politica della mela marcia ci ha portati, nel tempo, a non godere più di niente. Anche quando il nostro campione preferito vince, esultiamo col freno a mano tirato, sapendo che...
Ha senso? Io penso di no, penso che alla lunga l'appassionato si sposti su altri interessi, se questo è il gioco a cui deve sottostare.
Paradosso: poniamo il caso che oggi ci trovassimo al cospetto di un nuovo Coppi. Uno che nella Cuneo-Pinerolo (a 30 anni, e senza aver fatto prima qualcosa di avvicinabile a quell'impresa!) fa vam superiori non solo a quanto fatto fin lì, ma anche a quello che si era portati a immaginare possibile. Supponiamo che la vittoria nello stesso anno di Giro e Tour, considerata fin lì impossibile, venga realizzata da un atleta che ha qualità enormemente superiori alla media. Noi oggi, dopo anni di "incrementalismo", saremmo in grado di riconoscere quelle qualità? Saremmo in grado di godere fino alla fine di un'impresa di tal fatta, o ci resterebbe sempre il tarlo di un dubbio?
Prendiamo ad esempio il talento più luminoso di questi anni (secondo quello che è riconosciuto dalla stragrande maggioranza degli appassionati), Peter Sagan. Non ha ancora vinto niente di veramente importante, ma nel momento in cui ciò accadesse, magari con un'impresa fino all'anno prima ancora lontana dall'essere realizzabile, prenderemmo per buono al 100% questo risultato? Cambio domanda: pensi che Sagan corra a pane e acqua o sospetti che possa aiutarsi in qualche modo? Posto ciò, se un domani dovessimo avere notizia di una positività dello slovacco, tenderemmo a salvare il corpus intero della sua carriera, o lo vedremmo irrimediabilmente adombrato?
Quello che rivendico è il diritto a credere nella nascita e nell'affermazione di un altro Coppi (anche a 30 anni!). Ovvero di un corridore che sposti l'asticella più su, grazie al suo talento e alla sua forza, indipendentemente dal fatto che possa o no usare la bomba. Oggi è più possibile un discorso del genere? Non mi pare. E non è questo il certificato di morte di uno sport? Sport, ovvero quella cosa che ha per motto "citius, altius, fortius", più veloce, più in alto, più forte: cos'è lo sport se non la ricerca - ludica, nell'accezione moderna del termine - dei limiti umani? E come possiamo noi cercare e riconoscere tali limiti, se non appena si verifica una prestazione più importante della media, stiamo lì col bilancino a misurare wattaggi ed espressioni del volto? Non è il ciclismo che mi ha fatto innamorare, questo qui.
Se oggi ci si parasse davanti il Pantani del Giro 1994, del Mortirolo e del Santa Cristina, lo accoglieremmo con sospetto. E nella visione odierna (non più quella di appena 15 anni fa!) sapremmo sin dall'inizio che quell'atleta si aiuta in maniera illecita. Ma nel momento in cui tale aiuto venisse certificato da un controllo, riusciremmo ancora a discernere o butteremmo via il bambino con l'acqua sporca? Secondo me la risposta giusta è la seconda. A mio modesto parere tale dinamica l'abbiamo già vista, in anni più recenti, con Riccò. Ma questa è un'altra storia.
Oggi Froome ha fatto una bella impresa. È un personaggio fatto tutto a modo suo, pedala in maniera orrenda - come rilevato brillantemente in altro thread - ma è terribilmente efficace. In fondo nel suo percorso si può riconoscere una crescita lineare, protagonista ma sconfitto alla Vuelta a 26 anni, protagonista ma sconfitto al Tour a 27, protagonista e forse vincente al Tour a 28. Ha iniziato tardi ad andare forte (prima zigzagava sul San Luca), ma ha una storia particolare, è stato affetto da una malattia (a meno di non credere che questa sia una menzogna...) che è fortemente debilitante, purtroppo in questi anni ci siamo dovuti tutti un po' specializzare in medicina e io mi sono informato un po' su questa bilharziosi, che a volte è mortale, e comunque sempre influisce pesantemente sullo stato di salute delle persone che ne sono affette. Eppure nessuno lo dice oggi, nessuno fa notare che senza bilharziosi magari quest'impresa l'avremmo vista 5 anni prima; siamo invece tutti presi a capire se i venti secondi in più o in meno siano indice di immoralità.
Ecco, l'immoralità. Mi riallaccio al discorso di più su, quello sul giocattolo: quando la vita ti ha messo di fronte a delusioni atroci, quando sei stato tradito da persone amiche, quando altre ne hai perse in maniera ingiusta e intollerabile, quando i sogni della tua gioventù si sono scontrati con le difficoltà insormontabili del mondo reale, è giusto che anche il rifugio delle tue passioni venga brutalizzato da questo dannato mondo reale? Il ciclismo non è mondo reale per tutti noi, è un universo fatato in cui succedono cose incredibili, non perché sia davvero così, ma perché questo concetto è il germe della nostra passione. È di questo che ci siamo innamorati quando eravamo ragazzini, non della consapevolezza dei limiti umani, ma della certezza della loro superabilità da parte di alcuni supereroi. Anche se andiamo alla partenza della tappa e vediamo Sagan da vicino, e magari lo tocchiamo pure, lui resterà prima di tutto un personaggio della fantasia, così come lo erano Coppi e Merckx e Bugno: un personaggio che, entrato nella cabina telefonica e smessi i panni del grigio uomo comune (quindi i NOSTRI panni), indossa quella ridicola tuta con la S nel petto e salva il mondo. Tu non potresti mai farlo, ma lo fa lui per te. E questo ti fa sentire bene.
Il pessimismo cosmico: l'uomo, nella sua limitatezza, non potrà mai avere piena consapevolezza di ciò che lo circonda. Avrà sempre bisogno di credere in qualcosa o qualcuno. Può essere il ciclismo, questo qualcosa? Fino a pochi anni fa lo è stato, per molte persone. Oggi, da un po' di tempo, ha iniziato a non esserlo più. E bada che il ciclismo non è una categoria a sé stante, fa parte di una categoria più grande che si chiama sport, e che comprende tante altre discipline che invece, più del ciclismo, hanno saputo preservare la propria natura di "luogo (mentale) da sogno". Quel che mi chiedevo al fondo di quell'"embé?" era proprio questo: il ciclismo potrà sopravvivere al proprio stesso giacobinismo? O dovremo, di questo passo, prima o poi abbandonarlo? I fatti di oggi mi confermano che siamo più vicini all'abbandonarlo, rispetto a 10 anni fa e rispetto a quel che sarebbe giusto fosse. Siamo riusciti, nel nostro ciclismo, a rendere centrali, protagoniste del tutto, questioni che altrove sono meramente filosofiche e stanno a margine (pur nella loro sublime cogenza). Altrove si vede, si riconosce la valenza anche solo puramente estetica del gesto forte, e ciò basta a realizzare quella catarsi positiva per l'animo umano; mentre della natura ontologica di tale gesto non si discute (se non in ristretti illuminati ambienti), perché tale natura ontologica è data per scontata e quindi indiscutibile. Da noi, nel ciclismo, non è più così. Non esiste più l'art for art's sake, siamo stati indotti - non per la nostra natura, che rimane altrove tendenzialmente credulona, bensì per un'incredibile coesistenza di elementi politici e casuali - a mettere in discussione la natura profonda del nostro giocattolo un tempo preferito. Ne vale la pena? Serve a qualcosa? A me pare di no.
Nel momento in cui abbiamo la possibilità (volendolo, certo), di limitare gli effetti realmente dannosi (sulla salute) di determinate pratiche - e mi riferisco al passaporto biologico - dovremmo smettere di interrogarci sulla natura ontologica del ciclismo, e tornare a stupirci di come Superman salvi ancora una volta il mondo, anche quando pensavamo di non avere più speranze, che non fosse più possibile. Invece non succede, e siamo qui a chiederci se il watt in più o in meno di Froome sia provocato dall'ormone della crescita, dalla microdose di EPO o da qualche altra ignota diavoleria moderna. Davanti a una tale risposta del "pubblico", mi convinco sempre più della validità di quell'"embè?", mentre tu ti sei convinto dell'esatto contrario. Pensa come può essere vario il mondo.
