Tic, a me sembra che qui l’unico che legge il Corriere dei piccoli, con l’aggravante di farlo con l’aria di chi la sa lunga, sei tu. Non basta inserire paroline pseudo-specialistiche come mercati di nicchia e/o contingentazione affinché un discorso fili. Così come non basta tracciare due curve tra domanda e offerta con coordinate definite ex-ante, come fanno gli economisti neo-classici (conservatori servi del potere, ossia il 99 per cento dei miei colleghi di cui un buon 88 per cento consapevoli), per trovare un supposto equilibrio.
Veniamo ai fatti. Brevemente il tuo discorso è: la Cina basa la propria competitività sui bassi salari (dumping sociale). I salari occidentali sono molto più elevati. Quindi, i costi di produzione unitari sono più alti di quelli cinesi. Ergo, la Cina è più competitiva e tempo qualche anno i salari e i diritti dei lavoratori occidentali dovranno adeguarsi gioco-forza agli standard cinesi.
Insomma, una dicotomia tipica del’‘bianco o nero’? ‘panna o cioccolato’? ‘destra o sinistra’?..in cui il fattore temporale, da un lato, e le determinanti causali, dall’altro, semplicemente spariscono dall’analisi. Insomma, coloro che bollano di determinismo gli altri, non si sognano minimamente di applicare una lettura dialettica della realtà.
Il tuo ragionamento, imputando il peggioramento degli standard protettivo-salariali dei lavoratori europei-statunitensi alla crescita cinese parte da presupposti semplicemente sbagliati. Non basta che due fenomeni si verifichino contemporaneamente perché vi sia un nesso causali tra i due.
Innanzitutto, l’allargamento della forbice tra salari e produttività (maggiore tasso di sfruttamento) che ha determinato un abbassamento della quota di reddito da lavoro sul PIL nel mondo occidentale inizia ben prima del boom cinese, ossia attorno alla fine degli anni ’70 in Europa e con l’apertura degli anni 80 in U.S. (per quel che concerne il caso italiano si veda ‘Real Wages in Italy 1970-2000: Elements for an Interpretation.’ Di A.Stirati e S.Levrero, grafico 3, che si trova qui:
http://www.boeckler.de/pdf/v_makro_2004 ... tirati.pdf ; mentre per quanto riguarda il caso statunitense si veda I.Dew-Becker e R.J. Gordon, “Where did the Productivity Growth Go? Inflation Dynamics and the Distribution of Income”, tabella 1 e 2, che è liberamente scaricabile qui:
http://www.brookings.edu/es/commentary/ ... gordon.pdf .
Non sto qui a elencare le cause di questa inversione di tendenza perché non è questo l’oggetto in questione. Diciamo solo che l’economia di mercato è in grado di garantire aumenti salariali fino al momento che questi non mettono in crisi l’accumulazione del capitale. Nella sostanza, significa che
a) gli aumenti salariali e le conquiste normative ottenute con il ciclo di lotte del periodo precedente (per te un fatto negativo, per me positivo. Questione di punti di vista, o della classe sociale di appartenenza), conosciuto come profit-squeeze;
b) la crescita di Germania e Giappone che ha posto una minaccia per la supremazia statunitense per quel che concerne l’accaparramento di materia prime, mercati di sbocco, ecc
c) la saturazione dei mercati di beni di consumo durevoli
Hanno imposto una rideterminazione dei rapporti tra capitale e lavoro nel mondo occidentale, affinché venissero ripristinati i margini di profitti idonei alla ripresa dell’accumulazione. Sul piano interno (delle economie occidentali), ciò si è tradotto in erosioni salariali e giuridiche, tagli al salario indiretto (welfare state) e privatizzazioni – tutti fattori che nulla hanno a che fare con il ‘fattore Cina’.
Le politiche monetariste a trazione Volcker-Reagan elaborate nel ’79 e implementate poco dopo, ridurranno la dinamica dei prezzi di quasi il 30 per cento in 2 anni. E come essi stessi hanno dichiarato, ciò è avvenuto grazie ad una spietata deflazione salariale (alcune anime pie credono che ciò era necessario per contenere la spesa pubblica: a costoro vorrei ricordare che, nel frattempo, le spese militari-pubbliche avevano raggiunto livelli mai visti, facendo schizzare alle stelle il deficit fiscale alle stelle). In Europa le cose non andranno meglio. Distruzione della scala mobile con la complicità dei sindacati e dei partiti ‘disinistra’, svendita del patrimonio pubblico e smantellamento delle industrie a guida statale (le uniche, ad esempio, che avevano permesso all’Italia il raggiungimento di posizioni di avanguardia nel settore tecnologico, chimico, metallurgico, ecc) saranno le strategia adottate per ripristinare i ‘giusti’ rapporti di forza tra lavoro e capitale. È evidente che tutto ciò nulla a che fare con la Cina.
Sul piano esterno, attraverso il braccio armato del fondo monetario internazionale (fmi) e banca mondiale (bm), ciò ha condotto alla liberalizzazione dei mercati, alla crescita della finanza speculativa (dati gli esigui margini di profitto ottenibili dagli investimenti produttivi), fino ad arrivare al rispolvero dell’arma bellica quando i tentacoli del mercato non erano in grado di imporre la propria razionalità (=profitto). Ciò ha prodotto fame e disoccupazione in gran parte dell’emisfero sud, abitato dalle stesse persone che oggi giorno sono costrette a emigrare per sfuggire dalla morsa della fame – fame provocata proprio dalle politiche liberiste dell’ultimo trentennio e definite nel ‘centro’. Già nel 1985 il segretario all’agricoltura statunitense, John Block descrisse a chiare lettere l’obiettivo delle politiche liberiste in materia alimentare: «L’idea che i paesi in via di sviluppo siano in grado di sfamarsi da soli è un anacronismo che appartiene a un’epoca remota; essi potrebbero assicurarsi una maggiore sicurezza alimentare acquistando prodotti agricoli statunitensi, disponibili in molti casi a prezzi inferiori». L’interazione tra liberalizzazione commerciale e crollo dei prezzi agricoli che questa stessa ha provocato ha minato l’autosufficienza alimentare di molti paesi periferici. Ad esempio, il settore agricolo egiziano, che durante gli anni ‘60 era in grado di soddisfare il mercato interno di tutti i prodotti-base ad eccezione del grano (che però copriva il 70 percento dei bisogni della popolazione), dalla fine degli anni ‘70 perderà progressivamente la capacità di coprire i bisogni primari dei propri cittadini. Posto che queste politiche non avevano nient’altro che l’obbiettivo di favorire i grandi conglomerati dell’agribusiness occidentali, l’immigrazione di cui tanto la lega si riempie la bocca quindi non è altro che il risultato delle politiche economiche protratte da quelle compagini che essa stessa difende. Ovviamente, tolto lo squarcio d’ipocrisia che inganna tante persone, l’immigrazione è funzionale alle imprese del centro (e quindi anche italiane) poiché all’aumento del bacino di manodopera fa da contraltare una perdita del potere contrattuale dei lavoratori che si riversa in compressioni salariali. La lega, come i padroni e i suoi leccapiedi, ne sono perfettamente consapevoli.
Parallelamente, l’apertura commerciale-finanziaria favorisce la penetrazione delle imprese a capitale occidentale nei cosiddetti open-field, territori vergini ove impiantare produzioni a basso valore aggiunto contando sul basso costo della manodopera locale. Non è un caso che più del 50 per cento degli investimenti in Cina siano di origine occidentale. Quindi, caro Tic, invece di fare il fascistello-fatalista scagliandoti contro i più deboli, inizia a lanciare i tuoi anatemi contro la radici del problema, e non contro gli effetti.
E la Cina? Bene, la Cina in questo contesto ha agito con lungimiranza e sfruttando le debolezze altrui. Che poi questo vada di pari passo con la contrazione degli standard di vita dei lavoratori occidentali, pace (spesso dimentichiamo che il mantenimento del ‘nostro’ standard di vita – il 20 per cento della popolazione mondiale – è passato attraverso l’esproprio dell’80 per cento delle risorse del pianeta). Sul piano interno, garantendo la proprietà collettiva della terra a suoi contadini, ha capito che l’espulsione dei lavoratori dalle campagne avrebbe implicato un pesante aggravamento delle condizioni materiali di coloro coinvolti, creando un immenso esercito di riserva a disposizione delle imprese, e aumentando d’altra parte l’utilizzo di input energivori e lo sfruttamento eccessivo del suolo in agricoltura, in modo tale che dopo un’iniziale incremento di produttività si sarebbe presto ritrovata in condizioni peggiori, con una crisi ambientale aggravata e una massa ancora maggiore di persone impoverite e affamate. Persone che avrebbero presto costituito una minaccia sociale difficilmente gestibile. In questo contesto, la Cina sta perseguendo un modello di crescita oculato e differente da quello tipico della crescita occidentale (ma anche sud-coreano) dove ad un salario nettamente inferiore dei suoi lavoratori fa da contraltare, da un lato, una produttività ancora molto minore delle imprese nazionali presso cui lavorano e, dall’altro, uno stato ‘paternalista’ che garantisce loro l’accesso gratuito all’abitazione, all’educazione, ai sistemi sanitari e specialmente (come accennato in precedenza) alla proprietà agricola attraverso cui soddisfare i bisogni primari.
Sul piano internazionale, la Cina ha presto capito che il modello di crescita occidentale (statunitense per l’appunto) basato su eccessi consumistici e finanza speculativa (debito), aveva il fiato corto. Non è un caso che la strategia di crescita basata sulle esportazioni (negli Stati Uniti) sia stata finanziata dalla Cina stessa attraverso l’acquisto di titoli del tesoro americano, permettendo in pratica che 200 milioni di obesi americani (l’altro terzo costituito da neri, ispanici e sottoproletariato è lasciato nell’indigenza più assoluta), acquistassero beni cinesi indebitandosi per farlo. Risultato? La Cina tiene per le palle gli Stati uniti, dal momento che la vendita dei suoi bot farebbe collassare il dollaro con conseguenze politiche ben pesanti. D’altro canto, inizia lentamente a disfarsi di quei dollari, acquisendo asset fisici (da quote di banche americane, giacimenti petroliferi in africa e in latino-america, industrie in Europa e così via).
Per concludere, focalizzare l’attenzione sulle relazioni tra stati come fa Tic fa parte di un approccio tipico della destra più radicale (gruppuscoli fascisti per intenderci) che si dimenticano che le ‘nazioni’ in realtà non sono un corpo omogeneo, bensì popolate da classi sociali che pagano in maniera differente queste dinamiche. Se gli operai occidentali vedono progressivamente peggiorare le proprie condizioni di vita, la diseguaglianza del reddito ha raggiunto livelli esorbitanti. Ad esempio, se da un lato l’assorbimento dell’Europa dell’est nell’UE ha significato l’ingresso di 80 milioni di lavoratori a basso costo, dall’altro lato le imprese francesi, tedesche e italiane (le stesse che finanziano partiti che inneggiano alla ‘difesa del territorio’ al ‘padroni a casa nostra’ e all’’italianità-tedeschità-francesità) spostano le loro produzioni in Romania, Polonia e Cecoslovacchia, contando su agevolazioni fiscali di favore e salari infimi, ma chiudendo le imprese presso cui i lavoratori italiani, tedeschi e francesi percepivano un reddito sufficiente per mandare avanti le loro famiglie.