Tutte le cose scritte sono assolutamente vere ma, credetemi, non è necessario essere del settore per maturare sensibilità al riguardo.
La pubblicità è per sua natura "pubblica" e talvolta chi ci lavora all'interno ha più occhiali, meno senso critico e in generale minore capacità di osservazione.
Lo dico perché, nonostante l'apparenza frizzante, il mondo pubblicitario italiano e le logiche che lo animano sono di un totale becero conservatorismo.
Le logiche pianificatorie sono ancora le stesse di 25 anni fa, più o meno. Solo il web ha soppiantato un poco le cose in alcuni settori merceologici e soprattutto la comunicazione della piccola e media industria (il vecchio mercato delle directory: pagine gialle, guide di settore, ecc.).
I big spender, coloro che fanno i prodotti per la "casalinga di Voghera", si affidano sempre ai soliti centri media che pianificano nello stesso modo da lustri.
Quindi, se posso fare un appunto ai post precedenti è solo per dire che, se il ciclismo rimane fuori dai grandi investimenti, non è perché ci siano delle grandi strategie e dei grandi studi che lo rendono meno appealing di altro.
E' vero che esistono due sport, oltre ai motoristici, che vivono in una sorta di nuvoletta: il tennis ed il golf; con il golf che davvero è al 100% fuffa di piccolo mondo e per nulla un investimento pubblicitario in senso lato ma pur sempre comunicazionale.
I soldi che girano in quei mondi non si basano su un effettivo mercato pubblicitario, bensì sulla necessità di essere presenti e visibili in un piccolo mondo dorato ed esclusivo; un po' come la differenza che passa fra il plebeo Facebook dove chiunque può iscriversi e l'esclusivo A Small World dove invece bisogna essere invitati.
In qualche mondo c'è differenza fra essere sponsor per tutti ed essere sponsor "invitato".
Diciamo che la gran parte della fetta mondiale dei soldi veri della torta delle sponsorizzazioni finisce al calcio, al trio (o poker con NHL) degli sport americani e ai motoristici (con l'off-shore che è declinato parecchio a seguito dell'eccessiva arabizzazione; solo lì fa indici d'ascolto pazzeschi attorno al 50%).
Il resto del mondo sportivo si divide le briciole ed in queste briciole, nonostante tutto, il ciclismo fa la parte del leone.
A tutt'oggi il ciclismo permane uno degli sport che forniscono la maggior resa in proporzione agli investimenti ed alle loro entità (anche purtroppo per il suo complesso di inferiorità, anglosassoni esclusi).
Insomma, ciò che mi sento di dire è che non è tutto oro quello che luccica e non è tutta m... quella che è rimasta al ciclismo.
Non dimentichiamo che è stato il ciclismo ad inventare la sponsorizzazione sportiva di massa ed anche la sponsorizzazione extra-settoriale (muovendosi quasi in parallelo con le attività motoristiche).
L'assenza di una forte anima anglosassone lo ha reso debole nella comunicazione pubblicitaria per decenni in quanto ben sappiamo come il timone mondiale della pubblicità si trovi negli Usa. Però la parte francese del mondo media pubblicitario (Havas, Carat) hanno sempre avuto una ottima collaborazione col mondo del ciclismo ed il successo del Tour è anche una conseguenza di ciò.
Personaggi come Vincent Bolloré e Jacques Seguela hanno spesso intrecciato le loro attività con il fenomeno ciclistico ed il Tour de France, la sua carovana pubblicitaria ed a ciò si deve anche il maggior potere politico e la grandeur del Tour.
Anche in Italia il Giro è stato (ma si parla al passato), oltre che un fenomeno sociale, anche un fenomeno politico-mediatico, ma solo sino agli anni 70.
L'inconsistenza del mercato pubblicitario italiano in ambito mondiale ed in particolare rispetto ad anglosassoni e francesi ne ha risotto drasticamente le ambizioni, tanto più che i colossi esteri hanno col tempo acquisito le strutture pubblicitarie italiane. Oggi il mercato pubblicitario è gestito quasi interamente da gruppi esteri ed i beneficiari italiani (editori) sono i soliti noti (pochi e molto datati). Insomma, ad un panorama editoriale e di comunicazione vecchio e stantio, abbiamo affiancato un settore di produzione pubblicitaria diretto e controllato dall'estero (insomma siamo in un vicolo cieco).
La speranza per svincolarci da queste catene è tutta riposta nella rete che certamente metterà un po' in crisi anche qua il sistema della filiera pubblicitaria eliminando alcuni lucrosi e parassitari sistemi intermediari. Credo anche nello sport e nelle sue sponsorizzazioni.
Ciò che mi sento di dire è che è sbagliato considerare di serie B la sponsorizzazione Lampre e di serie A una eventuale presenza pubblicitaria di Intesa o di Unicredit (tanto per fare il parallelo Rabobank). Credo che il ciclismo odierno non abbia le spalle abbastanza forti per accogliere grossi sponsor, il cui potere va compensato da una struttura forte, altrimenti la loro dipartita eventuale creerebbe scompensi.
In ogni caso non c'è nulla di male ad avere sponsorizzazione di aziende medie che fanno il loro porco lavoro. L'importante semmai è la solidità del sistema.
Il problema oggi è il sistema. La assurda politica fiscale italiana sportiva favorisce e, oserei dire giustifica, l'artificio. Oggi abbiamo il paradosso di una lega ciclismo costituita da entità affiliate all'estero, anche peraltro in violazione dei regolamenti sportivi vigenti. Lì sarà necessario intervenire, ma la Lega Prof neo-costituita è già una entità fantasma.
Il ciclismo ha comunque avuto sino agli anni 70 delle grandi sponsorizzazioni industriali, non è vero che non le ha mai avute. Quando il ciclismo era uno "sport per poveri" il potere di acquisto dei suoi campioni era immensamente maggiore di quello odierno (ok, direte che non ci sono più i campioni

).
A parte questo, vi prego che non si scriva più che Mapei è entrata nel ciclismo per la sola passione sportiva del suo presidente. Nessuno mette in dubbio la passione (forse anche esagerata in certi casi), ma certamente Mapei ha fatto un ottimo investimento pubblicitario e di immagine (la sua brand awareness è esplosa grazie al ciclismo).Diamoci un taglio con i benefattori nel ciclismo. E' muffa! Ed è bene che sia così, perché lo sport è professionistico come le sue sponsorizzazioni.
Le imprese entrano nello sport perché conviene loro per fare business, per legittime convenienze fiscali e per fare comunicazione virale emotiva ed è bene così.
Perché dico questo? Perché ciò che passa con il messaggio che avalla i benefattori e svilendo il prodotto, è un sostanziale depotenziamento del prodotto ciclistico che si va a proporre. Se ringrazio chi mi sponsorizza è perché colui che sottoscrive il contratto mi dà un contributo e non una sponsorizzazione. E il contributo si dà "gratuito", a perdere, in cambio di poco o nulla. E questa è una vera follia. Nel contempo chi gestisce la macchina ciclismo non fa nulla per valorizzare il prodotto e per salvaguardare gli investimenti e pertanto garantire gli investitori.
Anzi oggi, e possiamo ormai dirlo, abbiamo dirigenti che probabilmente hanno lucrato sull'antidoping e/o creato artificiosi campionifici, con la scusa del doping.
Insomma non solo non hanno combattuto una piaga che ne ha demolito la visibilità e la credibilità ma hanno pure lucrato sul male di questo sport.
Ai vecchi dirigenti, al limite, si sarebbe potuto accusare un eccessivo disinteresse o lassismo, ma di certo la passione impediva anche solo di pensare certe degenerazioni.
Il mondo anglosassone però è corso ai ripari in questo ambito con le proclamazioni di pulizia e le ostentazioni di novità per rafforzare e proteggere l'ingresso delle sue big firm, e per far ciò ha spesso additato irresponsabilmente e in modo intellettualmente disonesto il movimento latino o continentale. Nel sud Europa non abbiamo avuto purtroppo la capacità politica di affermare la forza del nostro movimento, per via di una base anziana nell'immaginario collettivo (non so quanto anziana, ma certamente silenziosa e apaticamente passiva nel suo complesso).
Se si tiene conto che il cosiddetto target commerciale nella pubblicità è 15-54 (anni di età) possiamo comprendere come ci si sia messi sul binario morto; e così finisco ad avvalorare il titolo del 3d, molto controvoglia. A ciò si aggiunga l'operato dirigenziale, per il quale non è il caso di spendere ulteriori parole.
Cosa fare? Costruire la linea del Piave direi.
1) C'è la necessità di trasformare un apparato burocratico in un apparato dirigenziale e manageriale svincolandolo dalle spire assassine e velenose di un vetusto, parassita e discutile Coni, specchio della peggiore politica romana (la Fci è stata la dimostrazione di come la politica possa distruggere un gioiellino ben gestito ed in armonia con le società componevano in un mostro burocratico e irrispettoso del suo patrimonio principale, gli atleti).
2) C'è la necessità di individuare, e mettere a punto da parte del movimento, la comunicazione per il prodotto "ciclismo", stabilendo un forte legame di responsabilizzazione e corresponsabilizzazione con l'industria del settore, che è ancora forte e vitale (piccolo e medio fa ancora bene), ma spesso un po' egoista e profittatrice in Italia, mentre di converso aperta e relazionale nei suoi branch esteri (nemmeno la Francia possiede questo plus).
3) C'è la necessità di formare le dirigenze societarie dando loro strumenti e conoscenze basilari di marketing e comunicazione oltre a nozioni di gestione manageriale e fiscale.
4) C'è la necessità di consorziare tutto il consorziabile perché la numerosità delle community determina il loro valore commerciale e pubblicitario. E se ritenete questa frase troppo markettara, diciamo allora che "l'unione fa la forza". La sostanza è la stessa.
Quando una generazione di manager societari avrà assorbito e metabolizzato questa formazione potremo certamente ripartire con un antico vigore.
Tornando al discorso Fci, invece, direi che il valore potenziale pubblicitario della Fci è di gran lunga superiore alle miserie raccolte ad oggi.
E nonostante i risultati miseri dell'ultimo quadriennio in progressivo e preoccupante peggioramento, il valore della maglia azzurra permane immutato ed il movimento che lo sostiene numeroso, certamente superiore all'indotto di una squadra di serie B, perchè di questo stiamo parlando e tanto ci basterebbe per ridare un bell'ossigeno.
Invece il movimento continua incredibilmente ad annegare o soffocare fra le proprie feci ed escrementi (è colorita ma è realistica).
Qualcuno dirà: cosa c'entra la Federciclismo con le squadre professionistiche private?
Vero, verissimo, ma Sky è nata in seno a British Cycling, Rabobank viaggia a braccetto con la Koninklijke Nederlandsche Wielren Unie ed il presidente della FFC francese è il fulcro molto proattivo di Team, Tour e Coupe de France.
Rispetto al calcio un investitore italiano odierno non riconosce nelle entità del ciclismo soggetti forti, radicati a cui abbinarsi. Una squadra di calcio resta nel tempo (non è legata ad un solo calciatore) ed è radicata e riconoscibile (non è legata ad un atleta ed ha una sede fisica identificabile in uno stadio di una città).
Una entità ciclistica è in balia di mille tempeste, qualcuna (la peggiore) creata al suo stesso interno.
Cominciamo dal basso e dal nostro "piccolo", che poi tanto piccolo non è.
Ps. Tutti quanti spesso veneriamo le operazioni di globalizzazione ciclistica. Pensiamo ad esempio al Qatar.
Bene, il Qatar riassume la globalizzazione odierna. Spesso pensiamo ai petrodollari, ma gli interessi francesi là vanno oltre.
Il Qatar, a differenza di Arabia Saudita ed altri emirati, è un paese sotto protezione politica francese.
Le operazioni che hanno riguardato i mondiali di calcio sono ad uso e consumo di interessi incrociati che riguardano anche l'industria aeronautica e bellica francese.
Il gruppo Lagardere in Francia controlla France Football ed ha una quota considerevole nel gruppo Amaury.
Il califfo Al Thani del Qatar è stato ed è una sorta di commesso viaggiatore di Aeds e Matra nel mondo mediorientale. Oggi possiede quote rilevanti di Lagardere e di Aeds.
E' il proprietario del PSG multimilionario e scialacquone. Sarkozy lo considerava uno dei suoi principali supporter e la nuova politica francese lo ha adottato a sua volta senza problemi. Oggi in Francia le società qatariote godono per legge di un regime fiscale speciale. Per questa ragione la politica francese ha affidato ai qatarioti le politiche pubbliche per recuperare la banlieu parigina. Le immobiliare qatariote acquistano i quartieri, li rimodernano e li rivendono ai tanti cittadini musulmani godendo degli utili che il regime fiscale privilegiato consente. Ma alla religione musulmana il benefattore qatariota aggiunge anche un'altra religione "oppio dei popoli": il Paris Saint Germain.
Nel suo piccolo il ciclismo all'altare della religione vera

porterà i ciclisti ad arrossire ed arrostire sulle sabbie del Catarro

Non so perchè ma preferisco tenermi stretta le "povere" Lampre e Liquigas.