Grande Slegar, come sempre!
La tua analisi, ineccepibile, evidenzia anche dall’osservatorio squadre, quanto la mondializzazione tanto decantata, sia non solo un fantoccio esibito da Aigle per propri scopi, ma un effetto dei più svariati impulsi (eccezionali, o letteralmente costruiti, come nel caso dell’impostore), destinati a spegnersi, in quanto privi di una base, sinceramente voluta e, soprattutto, congiungente filoni realmente antropologici. Il tutto comunque proiettato su un orizzonte di numeri più risicati.
Meno eurocentrismo, ma più povertà complessiva sui movimenti reali.
La mondializzazione, non è stata aperta da Verbruggen e proseguita da Mc Quaid, con colpi di imperiosità ed interessi dubbi, sui quali, prima o poi, qualcuno dovrà mettere le mani, ma c’è sempre stata nella ricerca dell’UCI. Sono cambiati solo i metodi e le pubblicità conseguenti, spesso confondenti per business o interessi politici di qualcuno, a danno del ciclismo. È codesta la vera novità. Confrontare
un Rodoni, un Puig, ad una Quaglia, è un insulto, perlomeno per chi ancora vuole vedere uno sport credibile, pur tenendo conto del cambio dei tempi, delle economie conseguenti e delle crisi più generali.
Alla luce di tutto questo,
perché parlare di mondializzazione odierna, quando a fondare l’UCI, nell’aprile del 1900, ci fu la Federazione ciclistica degli Stati Uniti, al pari delle consorelle di Francia, Belgio, Italia e Svizzera?
Che senso ha mettere
l’Australia nel ciclismo delle frontiere allargate, quando nel 1895, già si correva la Melbourne – Warrnambool con 50 partenti, su quegli avventurosi 250 chilometri?
E Nino Borsari, Olimpionico italiano nel 1932, modenese, rimasto a Melbourne dopo aver corso su quelle strade e su quelle piste, impiantandovi un supermercato della bicicletta di dimensioni anche superiori a quelli d’Europa, cos’era? Uno che amava fare le cattedrali nel deserto?
Che senso ha dimenticare che un
Tour del Marocco o d’Algeria, destinava per lustri, ai vincitori, una notorietà tecnicamente superiore a quella solo d’effetto mediatico dell’odierno Qatar?
E il
Giro d’Argentina di 18 giorni, col meglio del ciclismo mondiale di fine novembre, inizio dicembre, cos’era?
O le
gare nell’odierna terra del Burkina Faso, dove un certo Coppi, trovò le zanzare di quella malaria che lo portò alla morte, cos’erano?
E quelle
in Nuova Caledonia, dove Tommy Simpson subì un’avvisaglia naturale di quel naturale che lo portò a morire sul Ventoux (altro che doping!), facendo crepare di paura il numero uno del mondo Jacques Anquetil e il “Treno di Forlì” Ercole Baldini, cos’erano?
E le migliaia di professionisti del keirin, che
il Giappone esibiva negli anni ’80, cos’erano?
Oppure ancora, e qui non concordo con Marco Grassi, c
osa c’erano sulle strade degli States, prima dell’invenzione di chi sappiamo?
Dove si consumarono le oltre centocinquanta vittorie di Roberto Giaggioli? Che gare erano queste? Incontri a rubamazzo, o corse in bicicletta con un centinaio di partenti cadauna? Certo, alcuni partenti erano davvero professionisti, mentre gli altri semplici carneadi eletti a rango di spessore, per la libera espressione e autonomia che una Federazione nazionale, sempre, deve avere sul proprio territorio. Eppure c’erano team, precedenti o contemporanei alla
Motorola, come la Gianni Motta-Linea, la stessa Mengoni, la Xerox - Philadelphia Lasers, la 7-Eleven, l’Eurocar-Vetta-Galli, la Saturn, la Coors Light, la Guiltless Gourmet, la Chevrolet, la Mercury e tanti altri, certo di carattere quasi sempre nazionale, ma c’era un movimento notevole per quantità e soldi (questi sodalizi pagavano, eccome se pagavano, anche se duravano mediamente poco). Tutta roba precedente, ripeto, l’acuto dell’invenzione “trinitesca”, semmai erano frutti dell’effetto Lemond, ed in parte Hampsten, e dove l’Amgen operava eccome, ma solo in vendita e non in sponsorizzazione.
E quel
Canada che oggi presenta, extra Europa, le gare tecnicamente migliori e col pubblico più folto ed attento, è forse una scoperta Quagliesca? Ci si dimentica del mondiale ’74 e di quel lavoro precedente che i successi dell’abruzzese Vincenzo Meco nella
Classica del Quebec, nonché i buoni comportamenti del lombardo Giuseppe Marinoni, intensificarono. Guarda caso due che sono rimasti là, ed han fatto fortuna. Uno, Marinoni, addirittura come illuminato costruttore di biciclette. Da chi è nato Steve Bauer, il canadese per ora più forte del romanzo ciclistico, se non da loro? E Gordon Singleton è figlio della Quaglia?
Potrei scrivere ore e ore su tanti altri passaggi storici attraversanti tutti i continenti, quando ancora Verbruggen e McQuaid erano spermatozoi vivaci, o, addirittura, nei pensieri futuribili degli stessi spermatozoi, ma dei loro nonni. Su questa bugia chiamata mondializzazione, forse scriverò davvero presto.
Quel che mi preme qui sottolineare, è che ogni paese, come è giusto sia, ha una sua via antropologica per giungere al ciclismo e viverlo compiutamente. Questo sport, potrebbe anche rimanere per sempre nel limbo del paese “x” o “y”, vivaddio! Non si esporta ed importa, o s’impone nulla, coi colpi di danaro, o spennando il danaroso autoctono di turno, o lo Stato di turno. S’è forse portato ad un certo rango il calcio negli States, dopo il ’94? S’è forse giganteggiato il rugby in Italia, dopo l’ingresso nel 6 Nazioni? L’avere oggi ciclisti norvegesi di grande spessore, è forse dovuto al mondiale di Oslo nel ’93? E Knut Knudsen cos’era, un belga?
E tutto l’ex impero sovietico, oggi frantumato in tante nazioni, ha scoperto il ciclismo per Verby e Quaglia, o perché, dopotutto, un tempo su quelle zone operava la FIAC che coinvolgeva 127 paesi? Chi ha portato i germogli di pedale in Astanà? Quaglia, o gli echi mondiali ed olimpici, di un Pikkuus, un Kopilov, un Logvin o un Soukhoroutchenkov?
Al ciclismo,
il Qatar concederà soldi per un po’, perlomeno fino a quando qualche sceicco vorrà togliersi sfizio, ma non aggiungerà nulla. Perché là, la spinta del pubblico, della passione e della semplice curiosità, non c’è. E, tanto meno, è logico pensare ad una fata che trasforma con la bacchetta magica le lucertole ed i ragni, oggi unici reali spettatori delle pedalate monocordi di quelle gare, così fortemente intinte del
falso messaggio “UCITrinity”.